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Il nostro dire dialettale, di Aldo Timossi

Da Santa Scarabola....

Santa Scarabola non appare nel pur corposo “Martyrologium Romanum”. Eppure viene spesso citata come benefattrice miracolosa, che salva in extremis, per il rotto della cuffia. Se un bravo giornalista come Giampaolo Pansa ebbe a liquidarla in poche parole, con un “secondo mia nonna era la santa degli impossibili”, “Il Monferrato” del 18 settembre 2007 riporta più profonde considerazioni di Olimpio Musso, corredate da un bel disegno dell’artista Laura Rossi.

Il “nostro”, laureato in Lettere classiche, è stato docente all’Ateneo di Firenze, nonché Addetto culturale dell’Italia, a Monaco di Baviera (1979-1982) e a Barcellona (1982-1992). Ricorrendo a derivazioni dal gotico, accosta Scarabula a “karskramla”, cioè raganella, lo strumento usato anche nelle chiese durante la Settimana Santa, in qualche modo santificato, nelle Terre monferrine e vercellesi, durante il Medioevo! Dotta ricerca etimologica, che può introdurre pur meno pretenziose considerazioni sulla derivazione di svariati e strani termini del nostro dialetto, che stanno poco a poco scomparendo, o sono già scomparsi dall’uso delle giovani generazioni. Ci aiuta nella ricerca, un “Glossario etimologico piemontese” edito nel 1888.

Per iniziare, uscendo dalla parrocchiale di Morano sul Po (il paese natale dello scrivente, oggi residente ad Anagni, ndr), sento un nonno raccomandare al nipotino di mettere il “bertolino”, il dialettale “bartulin”, il cappellino. Il cucciolo guarda un poco smarrito, perché a scuola ha imparato a conoscere quel copricapo, ma nulla sa del dialetto. Il nonno sconosce il cappellino, e italianizza a modo suo il “bartulin”! In realtà ha quasi ragione, bartulin suona come “bertin”, berrettino, corrotto in bertolino!

Aldilà del piccolo episodio, è segno di qualcosa che stiamo perdendo, il nostro dialetto, la nostra “bela lenga piemontèisa, tradìa e dismentià”, secondo il dire nobilitante del poeta Camillo Brero, scomparso nel gennaio 2018, autore del vocabolario Italiano-Piemontese / Piemontese-Italiano, tra l’altro ospite proprio a Morano, nella primavera 1980, per la “Festa del Piemont”.

Può dunque almeno incuriosire, un minimo elenco di termini dialettali, quotidianamente usati nei nostri territori fino alla seconda metà del ‘900, ed oggi divenuti rarità nella vita quotidiana. Nomi, verbi, aggettivi, modi di dire, dei quali è difficile trovare il corrispettivo italiano. Derivano ciascuno da una lingua diversa, parlata da gente che nei secoli ha percorso la strade a cavallo del Po, fra Vercellese, Casalese e Astigiano, e che abbandonando quei siti ha lasciato nel parlare una propria traccia. Iniziando dai Celti, per passare ai Romani, ai Galli, a influenze arabe, slave, romance, fino al percorrere di eserciti tedeschi, francesi e spagnoli.

La presenza più folta raccoglie parole derivate dall’oltrefrontiera nord-occidentale. 

Ancora molto usato “ajasin”, per callo del piede, dal provenzale “agacin”, irritazione. Gli agricoltori indicavano il pioppo bianco come “arbra”, dall’”aubra” provenzale, ed anche dal latino “alba populus”; la “verna” era invece l’ontano, dal provenzale “verno”. Se l’albero veniva abbattuto, si ottenevano i “biun” o “bion”, i tronchi, “billot” in francese. Quando era molto pesante, per spostarlo si usava il “trìncabàle”, carro a due ruote con assale alto, definito nel vecchio francese “trique-balle”. Per portarli in segheria, e comunque nei lavori di campagna, si usava il “tumbarel”, il carro senza sponde, dal francese “tombereau”

Forse qualche nonno giocherà ancora con il nipotino a “fa baboja”, fare capolino, laddove in Borgogna il “bojer” è l’insetto che si sporge per spiare intorno!

Chi faceva marachelle, era definito “bacan”, ed in Provenza il maleducato suona come “pacan”, derivato a sua volta dal latino “paganus”, persona rustica. Se parlava troppo gli si diceva “sta citu”, dal provenzale “chutto”, silenzio. Non smetteva e anzi alzava la voce? Ecco che “l’bragalava”, ancora dal provenzale “sbragalè”, schiamazzare. Quando poi si offendeva diventava “cagnin”, che in romancio fa “kignan”, derivati dal latino “canis”, il cane talvolta ringhioso. Se invece capiva l’antifona, si comportava con “dôi”, con garbo, ripreso dal “deitè” borgognone.

Quando ti stupivi di qualcosa, incredulo, chiedevi “dabun?”, davvero?, che in francese fa “tout de bon”! Si trattava di cosa sgradita? Ecco l’esclamazione “n’darmàgi”, mi rincresce, dalla parola danno, che in borgognone si traduce con “damage”. 

Nelle feste si faceva la “ribòta”, la mangiata in allegria, dal francese “ribote”; qualcuno ubriaco, tornando a casa a piedi rischiava “d’rubata”, di cadere a terra, derivato dal borgognone “des-rube”, precipizio. Se proprio era ciucco perso, gli ultimi metri li faceva “gatagnàu”, carponi, onomatopea del gatto miagolante, “gatamiaulo” in provenzale. Doveva stare attento a non “scarpusà” qualche deiezione canina, dal vecchio francese “piser”, pestare, cui si antepone la scarpa! Nel tempo in cui i cavalli in giro erano ancora tanti, poteva capitare di mettere il piede sopra una “busa”, uno sterco equino, dal francese “bouse”. Nel caso si fosse in inverno, attenti a non “sgujà”, scivolare, che in provenzale suona “esquihà”. 

All’asilo si portava, come colazione, il “turcet”, la ciambella a ferro di cavallo, ancora oggi ricordata con l’omonima festa a Morano, derivata dal “tortellet”, pane rotondo di Borgogna. Già dalla prima elementare “ventava” fare i compiti, bisognava, dal borgognone “avenat”, essere necessario/conveniente. 

Quando ti sporcavi, venivi definito “salop”, maialino, dal “salope” provenzale che sta per porcaccione. Se tornavi con il grembiulino rotto, mamma tutto subito si “sagrinava”, si dispiaceva, dal francese che traduce dolore con “chagrin”, poi si metteva a “sarsì”, rammendare lo strappo, laddove i provenzali usano “sarcì” (e in latino esiste “sarcire”, nel senso di riparare). Se proprio mancava il pezzo, bisognava “r’patà”, mettere una pezza, dal provenzale “pato”. Magari in casa faceva freddino, ed allora la mamma lavorava con le “mitene”, i mezzi guanti senza punta delle dita, dal francese “mitaine”; in senso figurato, andare “mitun-mitena” significava così-così, mezzo-mezzo!  In attesa della cena, si mangiava un “cruc d’pan”, dal francese “croute”-crostone, un pezzo di pane, talvolta con la “mariana”, mescola di zucchero e polvere di caffè, mentre oggi si spalmerebbe la Nutella!

Giocando, capitava di battere una zuccata, ed allora ti spuntava la “borgna” o addirittura il “burgnun”, dal provenzale “bougnoun”. Anche il mento era soggetto al rischio di colpi durante il gioco, ed allora si arrivava a casa doloranti nel “barbaròt”, dal francese “barbe de coq”, bargiglione. Ovviamente, il minimo che ti potesse capitare in famiglia, era di sentirti apostrofare come “tabaleùri”, vale a dire babbeo, stupidotto, dal romancio “tabalori” o “tamberland”. 

Quando, sempre da “masnà”, da bambino – in borgognone “majsniée” - andavo dai nonni, accanto alla loro casa c’era il buio laboratorio del falegname “barba Toni”, da taluno chiamato “minusiè”, in francese “menuisier”, tagliare, e ancor prima “mesdabosch”, mastro da bosco/legna. Non aveva ovviamente il trapano elettrico, per fare buchi usava il “girabrachin”, il trapano a mano a forma di albero a gomiti, in francese “vrile-brequin”. Per chiudere il locale usava una semplice “cricca” di legno, un saliscendi che deve il nome al “cric”- martinetto francese (da cui l’attuale cric per sollevare l’auto), ma di notte aggiungeva una “chèna”, una catena così definita non dal termine italiano ma dal francese “chaîne”. Anche nella bici, oggi c’è la “caden’a”, ma per i nostri avi c’era la “chèna”!

Nonna Teresa (Sota da Teresota), moglie di nonno Jaculin (Giacomo-Giacomino) lavorava alla cascina Gorra (era capa delle mondariso/mietitrici!) e usava la “m’sura”, il falcetto, dal francese “moisson”, mietitura, oltre che dal latino “messis”, messe. Sotto la “travà”, il rustico, c’erano le galline, nutrite con granaglie e “brèn”, la crusca, stessa grafia in provenzale, addirittura dal celtico “bran”. 

Ora, “venta finì ” (dal borgognone “avenant”, esser conveniente), bisogna finirla qui, per non annoiare. Alla prossima puntata, le derivazioni dal latino e da altre lingue che hanno avuto meno influenza sul nostro dire dialettale.

aldo timossi