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Prelati monferrini di AldoTimossi

Vincenzo Maria Mossi - Nasce a Casale il 25 aprile 1742 - 1796 vescovo ad Alessandria

Caso più unico che raro, quello di monsignor Vincenzo Maria Mossi, che alla fine della carriera chiede di essere ridotto allo stato laicale, per sposarsi e dare un erede al ramo familiare, altrimenti - come accadrà - destinato ad estinguersi.

Nasce a Casale il 25 aprile 1742 (su qualche testo si legge la data del 1752, del tutto errata) dalla famiglia dei marchesi di Morano, Penango e Torrione.

Il padre è Giovanni Pio Lodovico, dottore in legge, tenente colonnello, gentiluomo di camera del re; sposa nel 1734 Barbara Giovanna, figlia del conte Francesco Anguissola e della contessa Costanza Pallavicino.

Ha tre fratelli: Filippo Pio, ufficiale nelle guardie; Tommaso Ottavio, viaggiatore, collezionista d’arte e progettista di opere come il tempietto palladiano (con aria esoterica) a Saletta di Costanzana; Carlo Giuseppe. In famiglia anche due sorelle, Paola che sposerà il marchese Francesco della Rovere, e Costanza che andrà in sposa al marchese Francesco Malaspina De Giorgi.

Come purtroppo succede all’epoca, il parto in casa è difficile, si teme per la vita dell’infante che viene subito battezzato. Svolge gli studi superiori a Torino, nella reale accademia ecclesiastica di Superga, si laurea in diritto nel 1773 e in teologia due anni dopo. Ha come mentore lo zio Ottavio Isidoro Mossi, abate di San Mauro. Il 1 giugno 1776 è ordinato presbitero nella parrocchiale di Cumiana, in occasione della visita pastorale dell’arcivescovo di Torino, Francesco Lucerna Rorengo. Lo troviamo l’anno successivo nella carica di elemosiniere del Re. Nel maggio 1784, monsignor Vittorio Maria Costa d'Arignano lo nomina suo vicario come ufficiale generale della reale corte, e nello stesso anno è designato governatore del Reale collegio dei nobili. Al tutto si aggiunge la carica di rettore del collegio dei catecumeni!

La svolta decisiva nella carriera di Vincenzo Maria, il 7 dicembre del 1786, data della bolla con la quale il pontefice Pio VI gli assegna l'abbazia di Santa Maria di Vezzolano. Leggiamo nella “Storia dell’abbazia” di Antonio Bosio (1872), che Mossi “l'anno dopo prese solenne possesso della medesima, prima nella chiesa di Vezzolano, quindi seduto sopra una sedia a bracciuoli, fu portato sullo spianato dell'antico castello, detto la torre, vicino alla chiesa parrocchiale di Albugnano, come feudatario e conte di detto luogo”.

Il 6 aprile 1796, la proposta reale quale vescovo di Alessandria, il 27 giugno la nomina, il 10 luglio a Roma la consacrazione, dalle mani del cardinale Giulio Maria della Somaglia, titolare di Santa Sabina; co-consacranti l’arcivescovo di Larissa, Francesco Saverio Passari, e quello di Edessa, Gregorio Bandi.

Manda la sua prima lettera pastorale, in latino, al clero e popolo alessandrini. Il 30 agosto è al castello di Moncalieri per il giuramento al re Vittorio Amedeo III, quindi prende possesso della diocesi delegando l’arcidiacono abate don Ambrogio Bolla. Il 10 dicembre fa il solenne ingresso in città e la mattina seguente è in cattedrale. Un ritratto degli anni di episcopato, nelle pagine degli “Annali di Alessandria” di Guglielmo Schiavina (1861): “Introduce in Seminario una conferenza giornaliera di morale sotto la direzione del canonico teologo della cattedrale, alla quale interviene sovente (…) eregge le penitenzierie nelle collegiate di Quargnento e di Solero, pubblica non poche lettere pastorali, dalle quali si conosce il suo profondo sapere”.

Ottiene dai militari la restituzione dell’edificio del seminario, e quando deve nuovamente cedere l’immobile, lo colloca provvisoriamente in un braccio dell'ospedale dei santi Antonio e Biagio, che purtroppo deve presto abbandonare all’esercito.

Nell’aprile 1799 accoglie nel suo palazzo l’anziano e stanco pontefice Pio VI (“sembrava propriamente un corpo esanime” annota il cronista) tradotto prigioniero in Francia: è una delle tristi vicende della dominazione napoleonica, destinata a segnare anche la vita del vescovo.

L’occupazione francese porta con sé la soppressione degli ordini religiosi e la riduzione delle diocesi. Tra gennaio e marzo del 1803 Alessandria deve subire la distruzione della cattedrale, perché ritenuta “ingombrante” nel quadro della futura riorganizzazione funzionale urbana.

Anche la diocesi sta per perdere l’autonomia, e il suo territorio incorporato in quella di Casale, assieme alle soppresse diocesi di Bobbio e di Tortona. Eventi traumatici, che fan cresce in monsignor Mossi il proposito delle dimissioni, cui sta pensando dalla fine del 1802, quando è morto il fratello Tommaso Ottavio, lasciandolo unico erede di un immenso patrimonio che si estende fra Vercellese e Monferrato: Frassineto Po e le tenute di Torrione (con castello e palazzo), Robella e Saletta di Costanzana (con il tempietto di san Sebastiano). Al tutto si aggiunge un palazzo a Torino. Il 30 dicembre 1802 indirizza a Napoleone un’accorata lettera con la quale chiede la grazia di ottenergli “du Souverain Pontife un bref qui me rend a l’etat seculier, et laique”; in sostanza chiede sponsorizzazione per essere ridotto allo stato laicale, in quanto con la morte del fratello è l’unico a poter avere un erede, quindi mantenere la successione della famiglia Mossi.

Da Roma nessuna risposta, salvo l’accoglimento delle forzate dimissioni. Da quel momento trascorre gli anni dedicandosi all’amministrazione delle proprie tenute - “passa la più parte dei suoi giorni nelle sue case di campagna” scrive il De Conti - e ad implementare la collezione di opere d’arte. E’ di questo periodo, intorno al 1812, l’incarico all’architetto spoletino Agostino Vitoli per la costruzione di un palazzo a Frassineto; il professionista, che qualche anno prima ha progettato il teatro di Casale, realizza una complessa costruzione composta da vari edifici a rustico e dalla residenza padronale su due piani, con un corpo circolare che funge da fulcro, il tutto circondato da un giardino all’inglese.

Nel 1815, con la Restaurazione, riceve il titolo di arcivescovo di Sida, “in partibus infidelium”, nei paesi degli infedeli, cioè occupati dai Turchi. Carica onorifica ma di rilievo, sovrintendendo quell’arcidiocesi alle suffraganee di Aspendo, Colibrasso, Etene e Lirba.

Nel 1825 il re Carlo Felice lo nomina cappellano maggiore dell’esercito, cancelliere dell’Ordine della Santissima Annunziata, direttore ecclesiastico dell’Ospizio di Carità di Torino. Termina il cammino terreno nel palazzo torinese il 29 luglio 1829, all’età di oltre 87 anni, con il titolo di vescovo emerito di Alessandria. Il feretro è trasferito a Torrione e tumulato in quel piccolo cimitero, dietro la chiesa (oggi forse compresa nella vendita a privati, inaccessibile e ammalorata) nel sepolcreto di famiglia.

Nonostante ripetute richieste, non è stato purtroppo possibile sapere dal Comune di Costanzana se quel camposanto sia ancora attivo. Idem per l’arcidiocesi di Vercelli, che non dispone di notizie e ignora se il buon prelato sia ancora in quel sito! Situazione a mio parere inverosimile, considerato che non si tratta di persona qualunque, e che almeno la curia vercellese, al pari di quanto accade in altre diocesi, dovrebbe avere memoria di quel suo pastore. Fortuna che il memento è conservato all’Accademia Albertina di Torino, con un monumento posizionato nell’atrio, opera dello scultore Carlo Marocchetti.

In assenza di eredi diretti, il prelato aveva infatti stabilito con testamento che i beni andassero al cugino per via materna, Lodovico Pallavicino di Parma, escludendo però dall’eredità oltre 200 preziosi dipinti donati all’Albertina e alla Biblioteca Reale di Torino; firme di tutto rispetto, da Macrino d’Alba a Bernardino Lanino, a Gaudenzio Ferrari e Giulio Romano, quindi Andrea del Sarto, Mantegna, Tintoretto, Canaletto, Ghirlandaio, Caravaggio.

aldo timossi