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Risaie, editti e lagnanze

Di Alto Timossi

Da oltre mezzo millennio, il paesaggio della risaia è una costante della pianura padana e di non poche terre in altre latitudini della penisola.

Oggi uno dei problemi discussi verte sull’uso dell’acqua, la “culla” del riso, sia per la semina sia per la coltivazione. Sempre più diffusa la semina a secco, ancora controverso il tema della coltivazione con sommersioni periodiche.

Lasciando agli agronomi il loro mestiere, dal punto di vista storico, il ridotto uso della sommersione avrebbe fin da illo tempore fatto risparmiare discussioni, liti, leggi e regolamenti, tutti fondati sulla nocività o meno della risaia, rispetto alla salute dell’uomo.

In effetti, l’argomento ha toccato molto da vicino anche le comunità vercellesi e lomelline, e tanti centri del Casalese, sulla sinistra del Po.

Una vecchia vicenda di lotte fra gente di Balzola e i nobili feudatari Fassati e Callori, è occasione per rammentare la secolare discussione, iniziata a metà del Quattrocento, quando al riso importato dall’Asia in piccole quantità e venduto ai nobili per farne dolci, o in farmacia (lo speziale, lo “spisiari”) perché considerato toccasana per le malattie dell’apparato digestivo (un documento del 1253, ne testimonia l’uso all’ospedale Sant’Andrea di Vercelli, cucinato con le mandorle!) inizia ad affiancarsi qualche sacchetto di “Oryza sativa” coltivato in centro Italia. Si ricorda il “riso di Massarosa” (Lucca), cresciuto nel clima caldo e nei terreni paludosi intorno al lago di Massaciuccoli, a due passi dal mare di Viareggio.

Il 1475 segna una data importante per la risaia. Nel settembre di quell’anno, Galeazzo Maria Sforza manda un messaggio al Duca D’Este, accompagnandolo con alcuni sacchi di riso, assicurando che, se ben coltivato nelle terre umide nel Delta del Po, avrebbe dato rese di 1-12.

Nella pianura piemontese tra Novarese e corso del Po, il diffondersi del nuovo coltivo è rallentato, sia dalla mancanza di canali – la Lombardia già da tempo utilizza il Naviglio grande e il canale della Muzza - sia dalle notizie di danni alla salute umana, indotti dalle acque stagnanti. Un esempio ci viene da Fontanetto Po, dove nel 1556 tal Leone Comino ha licenza di condurre acqua per irrigare “orizin”, ma verso fine secolo arriva la proibizione del coltivo.

E’ del 1612 la “permissione al signor Benedetto Miroglio di far riso nella contrada della Motta” da parte del Consiglio della città di Vercelli. Da qualche anno le autorità hanno iniziato a preoccuparsi delle conseguenze sanitarie derivate dalla nuova coltura. Carlo Emanuele I, Duca di Savoia e Principe di Piemonte, con editto del luglio 1607, ha stabilito la necessità di porre condizioni al coltivo, “in vista dei gravissimi danni ed irreparabili derivati sì nei frutti che nei bestiami e negli huomini, dal che si vedono le cascine derelitte ed alcuni luoghi disabitati”, specie nel Vercellese. 

Proprio a Balzola – scrive lo storico locale Luigi Piazzano - nel febbraio 1624 la Comunità si esprime contro il diffondersi delle risaie, perché apportatrici di malanni “per causa di nebbie”, e i particolari (fino al secolo scorso si usava il dialettale “particular” per indicare i proprietari terrieri) “vicini di dette risaie vengono offesi nella salute per l’infezione dell’aria”. Probabilmente rammentano la devastazione provocata dalla malaria a Vercelli, poco dopo il 1580. 

Passano gli anni e si susseguono gli editti, confermati da Carlo Emanuele II e Vittorio Amedeo I e II. I coltivatori devono tenere “le strade nette e i fossi ben purgati ed aleati”, e vanno tenute le distanze stabilite dalle concessioni, almeno due miglia – oltre due chilometri - dall’abitato di Vercelli, e almeno 300 trabucchi – poco meno di un chilometro - da ogni altra “Villa, Terra e Borgo costituente Comunità”. Col tempo le distanze diventano maggiori, addirittura nel 1697, Vittorio Amedeo II fissa sei miglia per Vercelli, città nella quale era morto di malaria (qualcuno dice avvelenato durante una cena), Vittorio Amedeo I.

Per tutto il ‘700, si susseguono editti e regie patenti, che indicano i territori nei quali è tollerata la risicoltura, e stabiliscono le distanze dagli abitati. In particolare le uniche zone dove la risicoltura è consentita sono quelle del Casalese, Vercellese, Biellese. Nell’agosto 1792 è rinnovata la proibizione di introdurre nuovi coltivi di riso nelle Province di Novara, Vigevano, della Lomellina, di Vercelli, di Biella, in tutti i terreni in allora destinati ad altra specie di coltura, qualunque sia la distanza dei medesimi dagli abitati e dalle strade, “sotto pena a ciascun contravventore di scudi cinquanta per caduna giornata” (azzardo: uno scudo, circa 100 euro) e dell'immediata distruzione delle risaie. 

Intanto, proprio a metà ‘700, si è consumata una prima, robusta lite fra i Balzolesi e il conte Giovanni Francesco Callori, proprietario della grande tenuta intorno alla Cascina Nuova. Il nobile, forte di concessioni avute dalle competenti autorità, ha deciso di allargare il coltivo, facendo realizzare un canale irriguo che sottopassa la strada pubblica per Vercelli, attraverso il taglio della via e la costruzione di un paio di ponti. 

Come estremo rimedio, un gruppo di Balzolesi (sindaco Francesco Piazzano, medico Giovanni Giacomo Grignolio e alcuni consiglieri) una notte dell’aprile 1760, “schioppi” e picconi alla mano, distrugge del tutto i manufatti. Successiva denuncia e inchiesta, con il giudizio tre anni più tardi, che sancisce l’assoluzione. Il Callori può comunque ricostruire i ponti e allargare la coltivazione risicola.

Sopito il litigio nell’agro balzolese, prosegue a suon di lagnanze, trasgressioni e “regie patenti”, l’alterna sorte delle risaie. Già nel settembre 1814, re Vittorio Emanuele I è costretto a richiamare la vigenza delle norme fissate nel 1792. L’anno successivo, preso atto “delle perniciose conseguenze, che l'esperienza dimostrò derivare dalla troppo estesa coltura de terreni a riso, che si è praticata in questi ultimi tempi in varie Provincie dei nostri Stati”, nomina una “Delegazione” cui affida il compito censire, paese per paese, le risaie esistenti. 

Ai saggi fornisce due “dritte” fondamentali: verificare caso per caso le autorizzazioni rilasciate prima del 1792, rilasciare nuove licenze solo a condizione che i “terreni per la loro qualità paludosa non siano assolutamente suscettibili d'altro genere di coltura, e che la coltivazione a riso, avuto riguardo alla distanza dei terreni dalle abitazioni, e dalle pubbliche strade, e allo scolo che ricevono le acque, non possa recare il menomo nocumento alla salute pubblica”.

La Delegazione lavora a tamburo battente, e in meno di due mesi fornisce i risultati, notificati con manifesti a Torino e nelle Province di Vercelli, Novara, Biella, Casale, Alessandria, Lomellina, e Vigevano.

Preso atto che ormai la stagione è avanzata, e distruggere risaie significherebbe falcidiare il raccolto “che nelle presenti circostanze preme piucchè mai di conservare”, autorizza anche gli abusivi a proseguire nei lavori, a patto di essere autorizzati dalle autorità locali, alle cui Congregazioni di Carità dovrà essere consegnato un quarto del raccolto, o pagata un’ammenda. Peraltro, la sanatoria non vale per quelle risaie “che sono in minore distanza dalle Città, Luoghi, Terre, Borghi, ed Edifizi di campagna di quella prescritta dalle precedenti provvidenze, dovendo queste risare essere tutte indistintamente distrutte”.

Non c’è sanzione a fermare i risicoltori, e qui si svolge l’ennesima lotta, stavolta senza “schioppi”, tra la Comunità di Balzola e il marchese Evasio Fassati, proprietario di ampi terreni nella regione Martinetta, accusato di non rispettare le distanze dalla strada per Villanova. In effetti, i Balzolesi hanno ragione, ma è il Re in persona, Vittorio Emanuele I a firmare l’atto del maggio 1819, che, di fatto, pur riconoscendo l’abuso, autorizza il Fassati a proseguire il coltivo, perché si tratta di terreno “sortumoso, non suscettibile di colture a secco”. 

Proprio sul rispetto delle distanze, nel 1835 il Magistrato di Sanità è costretto a rammentare per l’ennesima volta che la coltivazione non deve estendersi ad alcun nuovo terreno. Tre anni dopo, viene creato anche a Casale un Magistrato di Sanità, come conseguenza del nuovo Senato istituito a Casale nel settembre 1837.

La storia cambia, quando nel 1850 il Parlamento Subalpino autorizza - con interventi in Aula anche dei casalesi Mellana e Lanza – “a dare per la coltivazione a riso, nelle località dove sarebbe proibita dagli editti del 1728 e 1792, quelle licenze parziali (…) avuto riguardo alla pubblica salubrità (…) e sempre che si tratti di terreni già stati coltivati a riso dall’anno antecedente”.

Inutile dire che da quel momento, le risaie si sono fatte avanti di anno in anno, in qualche caso fino a ridosso di centri abitati e cascinali. Senza guai di febbre malarica agli umani, preso atto anche di statistiche demografiche, secondo le quali – siamo nel 1870 – la media dei morti su cento abitanti, nei paesi a riso è di 3,22, in quelli senza riso di 3,20, mentre la media dei nati è rispettivamente di 4,18 e 3,66.

Per andare all’oggi, possono forse esserci riflessi dovuti all’uso di prodotti chimici, ma lo potrebbero dire solamente le statistiche sanitarie, paese per paese. Ammesso si vogliano fare!

aldo timossi