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Prelati monferrini (12) di AldoTimossi

Pietro (Pietrino) Cocconato, nel suo futuro il vescovado di Piacenza.

Nasce appena dopo il 1300 Pietro (Pietrino) Cocconato, lontano parente di quell’Uberto che fu cardinale di Sant’Eustachio. Nel suo futuro il vescovado di Piacenza. Ha ben cinque fratelli, con il quale divide beni di famiglia in alcune zone dell’astigiano e torinese, progressivamente alienati - è quanto emerge da documenti notarili - per raccogliere proprietà intorno a Cocconato.

Nel 1335-36 ottiene da papa Benedetto XII il canonicato della chiesa di Montfauçon, diocesi di Reims, come risulta - si legge nella “Cronaca” di Benvenuto Sangiorgio - dal testamento del marchese Teodoro Paleologo, che con altri nobili sottoscrive come “Petro de Cocconato canonico Remensi". E’ solo il primo passo verso nuove prebende, ottenute grazie anche alla cordiale amicizia con i Marchesi monferrini; un lungo elenco: Liegi, Spira, Verdun, Losanna, San Giovanni di Moriana, Metz, Asti, Sant’Albano Vercellese. Un’ascesa ecclesiastica favorita anche dall’essere presente nel giro dell’arcivescovo di Albi, Pectin de Montesquieu, cardinale dal 1350. Al tempo stesso aumenta il peso politico, tanto che nel 1349 è co-firmatario di atti tra Savoia e Visconti di Milano, sempre come “venerando viro domino Petro de Cocconato canonico Remensi”.

Il 20 febbraio 1355 giunge la nomina a vescovo, destinato a Piacenza, dov’è passato a miglior vita monsignor Roggerio Caccia, che l’”Historia ecclesiastica” di Pietro Campi (1652) definisce “di insigne carità verso i poveri”. “Pietro de’ Marchesi di Cocconate di Monferrato, Cameriero del Sommo Pontefice Innocentio Sesto, non men degno che nobilissimo soggetto” arriva in anni difficili, di contrasti e guerre tra signori, immaginabile la difficoltà di destreggiarsi nel governo di una Chiesa politicamente soggetta ai Visconti di Milano che non hanno certo buoni rapporti con i confinanti Paleologi monferrini, cui Pietro è legato.

Arrivato in sede a fine anno, si preoccupa subito di avere intorno a sé persone fidate. Mantiene come vicario per le cose spirituali l’agostiniano fra Michele Borgo, ma per il “temporale” affida la gestione al parente fra Bartolomeo Cocconato, priore di un monastero nel Vercellese, poi sostituito da tal Guido Corradi di Trino. Scorrendo rogiti dell’epoca, si rileva che arrivano dal Monferrato anche due notai, Bartolomei de Simonis di Tonco, e Raymundi de Cerexeto.

Scrive il Settia che “l'attività episcopale si svolge fra angustie e problemi tipici di un periodo di grande crisi qual è sotto ogni aspetto la seconda metà del Trecento: le popolazioni della diocesi tendono a sottrarsi al pagamento della decima; gli enti ecclesiastici indebitati - anche per le frequenti e pesanti taglie imposte dai Visconti signori della città - vedono smembrati e alienati i loro patrimoni fondiari”. Ci sono ricorrenti guerre, che Cocconato osserva certo con ansia, coinvolgendo gli amici Paleologi; ironia della sorte, quando nel 1359 i Visconti prendono Pavia, amica dei monferrini, deve in qualche modo fare buon viso a cattivo gioco di fronte a festeggiamenti con una “solenne processione del Clero per la citta”!

nel 1361 arriva una pesante pestilenza che fa “gran rovina in Piacenza, in Parma e in più altre città eziando fuori di Lombardia”, e proprio a Piacenza “toglie alla città e al contado più d’un terzo delle genti”, anche fra il clero; nel 1364 è la volta delle cavallette, che “riempiendo l’aria parve che oscurassero il sole, e coprendo la terra mangiarono l’herbe e tutto quello ch’era in campagna infin alle radici, che rimase il terreno quasi che dal fuoco abbruciato”. Presbiteri che vengono a mancare e altri da allontanare perché "scandalosi e indegni", campagne che si spopolano, addirittura comunità monastiche costrette dal continuo passaggio di soldataglie a rifugiarsi in città, impegnano monsignor Cocconato a continui interventi sull’organizzazione diocesana. Trova peraltro anche il tempo di occuparsi dei beni da famiglia. E’ la Quaresima del 1365, quando parte “cavalcando verso il paese natio del Monferrato, forse per qualche urgente bisogno”, lasciando gli affari diocesani ad un nuovo vicario, il “diligente” Artemio Caccia, canonico della Cattedrale.

Ormai quasi settantenne, continua con forza l’impegno pastorale, ma nel marzo 1372 subisce un duro colpo con la morte del marchese monferrino Giovanni II, “che lo aveva seguito e raccomandato nella carriera ecclesiastica e al quale era rimasto evidentemente legato nonostante la rottura avvenuta tra la sua famiglia e il marchese nel 1368” (Settia). Arriva un rapido decadimento fisico, “aggravato dal dolore, oltre alla vecchiaia, e dall’infermità sua, di cui ordinariamente pativa”. A fine aprile dello stesso anno chiama intorno a sé alcuni dei più stretti collaboratori e si occupa delle “cose dell’anima, facendo i debiti apparecchi di confessione e della sacra Comunione”. Viene steso il testamento, che inizia invocando “l’aiuto della Santissima Trinità, della Beatissima Vergine Madre di Dio, e de’ gloriosi Apostoli Pietro e Paolo e delle Sante Vergini, e martiri Giustina e Lucia”. Istituisce quali eredi i poveri della città, “consapevole però di non avere molte sostanze” e di dover anzi sanare alcuni debiti; consegna “alcuni denari” al Capitolo della cattedrale perché siano celebrate messe perpetue nel giorno della propria morte; si preoccupa siano soddisfatte le spettanze di collaboratori in arretrato con la paga. Dal testamento un particolare significativo: al momento della consacrazione, si era fatto prestare 200 fiorini dal nipote Abbellonio, da versare come d’uso alla Camera apostolica. Dunque, poverello ad inizio missione, poverello alla fine, avendo probabilmente speso non pochi denari anche per finanziare la sistemazione di edifici religiosi e addirittura la fornitura di paramenti sacri; ha speso non poco per robusti lavori alla chiesa del Carmine, la cui prima pietra risale al 1334 per iniziativa dei Carmelitani.

Il 13 maggio, “Petrus de Coconate Montisferati” trapassa all’altra vita, “senex et plenus dierum”, vecchio e sazio di anni. Viene seppellito in cattedrale, nella cappella di santa Lucia, “in un’arca di pietra lavorata all’antica, con quattro pastorali in rilievo, la croce nel mezzo e l’arme duplicata di sua famiglia, che usava portare un’aquila in piedi con l’ale distese”.

aldo timossi

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