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“Giacomo Matteotti. L’Italia Migliore”
Presentazione a Fine dell'autore Federico Fornaro
C’era bisogno di scrivere un altro libro su Matteotti? Se lo è chiesto l’Onorevole Federico Fornaro, uscito quest’anno nelle librerie con il volume “Giacomo Matteotti. L’Italia Migliore” (edizioni Bollati Boringhieri), presentato – in conversazione con Luciano Fassa, venerdì sera a Fubine alla Casa del Popolo, su iniziativa del locale Circolo del Partito Democratico.
Nel centenario dell’assassinio, avvenuto a Roma il 10 giugno 1924 per mano dello squadrismo fascista, Fornaro non si limita a commemorarlo: la sua penna ricostruisce, invece, la biografia e il pensiero politico del deputato socialista e soprattutto ne restituisce al dibattito il riformismo intransigente, il pacifismo assoluto, l’europeismo pre-comunitario e la difesa senza compromessi della democrazia, totalmente smantellata dalla dittatura mussoliniana.
A dare il la al libro è l’alluvione del Polesine del 1882, anno in cui l’Adige rompe gli argini a Legnago e devasta una terra difficile, infestata dalla malaria e dalla tubercolosi e già piagata da una endemica arretratezza socio-economica. Il lembo più meridionale del Veneto fa registrare a fine Ottocento il 36% di analfabeti – percentuale che si impenna al 43 nel solo circondario di Adria, e circa un terzo dei suoi abitanti emigra in Brasile.
È questo il quadro generale nel quale tre anni dopo, il 22 maggio 1885, vede la luce, a Fratta Polesine, Giacomo Lauro Matteotti. I genitori, Girolamo Stefano ed Elisabetta Garzarolo, originari di Comasine in Val di Peio, in Trentino, assistono alla prematura scomparsa, per malattia, di tutti gli altri sei figli. La famiglia vive, comunque, in una condizione di relativo benessere economico e Giacomo si laurea a 22 in Giurisprudenza all’Università Alma Mater di Bologna: un traguardo che presagisce la carriera forense e che invece lo incoraggia a mettersi al fianco degli ultimi, degli indigenti e di tutti coloro senza risorse necessarie per sopravvivere. Il giovane, come si legge fra le righe di Fornaro, aborrisce i rivoluzionari “parolai e gli oratori “trionfi” e si muove invece nel concreto, puntando a una effettiva e fattiva emancipazione dei diseredati.
Matteotti si interessa alla giustizia sociale, parla – in aperto contrasto a Benedetto Croce, Ministro della Pubblica Istruzione del quinto e ultimo Governo Giolitti, di costruire più scuole in un’epoca in cui le classi arrivano a contare ognuna fino a novanta alunni, è convinto che il benessere collettivo dipenda dall’operato delle amministrazioni pubbliche alle quali rivolge l’accorato invito di portare i servizi essenziali (in primis acqua ed elettricità) in tutte le case. Dunque, il neutralismo, l’antimilitarismo e il pacifismo assoluti, che non accettano mediazioni e a causa dei quali subirà le prime, serie divergenze non solo con lo Stato Italiano appena entrato in guerra contro l’Austria-Ungheria ma anche con la sua “casa” politica, il Partito Socialista.
Nel 1916 Matteotti pronuncia in Consiglio Provinciale un durissimo discorso antibellicista molto vicino all’accusa formale di antipatriottismo da parte della Prefettura: dalla natia Rovigo, zona di guerra a tutti gli effetti per la vicinanza al fronte, viene inviato nei forti siciliani a controllo dello Stretto di Messina. Neanche la disfatta di Caporetto lo convince dell’urgenza della chiamata patriottica (per lui la guerra è voluta dai ceti ricchi ma combattuta dai poveri) e per questa ragione si scontrerà con il suo “maestro” di partito, Filippo Turati.
A ostilità concluse, Matteotti viene eletto nel 1919 alla Camera dei Deputati e, se nei collegi di Rovigo e Ferrara il PSI agguanta percentuali “bulgare”, falliscono nettamente i neonati Fasci di Combattimento, candidati solo a Milano: il fondatore Benito Mussolini viene "canzonato" sotto casa da una comitiva di socialisti meneghini che esibisce una “bara” di cartone con impresso sopra il suo nome e la getta nel Naviglio, a decretarne un funerale politico che invece serberà destini ben diversi. Infatti, l’eco della Rivoluzione Russa riverbera in Italia, il disastro post-bellico colpisce i ceti bassi e presto gli operai occupano le fabbriche del Nord. L’agonizzante Stato Liberale stenta a imporre la propria voce – Giovanni Giolitti, dalla villeggiatura di Fenestrelle, confessa di non avere in forza abbastanza soldati per soffocare scioperi e occupazioni: gli industriali iniziano così a rivolgersi – foraggiandolo anche finanziariamente, allo squadrismo fascista. Le camicie nere, che viaggiano di paese in paese con i camion acquistati con le somme dei “potenti”, si rendono responsabili di spedizioni punitive, aggressioni, brutali pestaggi ed eccidi e attuano una “controrivoluzione” a una “rivoluzione” che in realtà non sarebbe mai esistita nella Penisola.
In questi anni cupi, segnati dal collasso della democrazia e dallo “stress” fatale dello Stato Liberale, Matteotti si pone come uno degli avversari più difficili e animosi del fascismo, il primo oppositore “mediatico” del futuro regime. Viaggia per le capitali europee, chiedendo ai rispettivi governi di non sottovalutare o travisare il fenomeno italiano, intriso di violenza e antiparlamentarismo. Inevitabilmente il deputato socialista finisce nel mirino delle camicie nere che la notte del 12 marzo 1921 lo sequestrano a Castelguglielmo e lo invitano a ritrattare le accuse. Alcuni parlano persino di violenze a lui inferte. Si rifugia a Padova: non rivedrà più il natio Polesine. Il 16 novembre 1922 Benito Mussolini, nominato il 31 ottobre capo di governo dal Re Vittorio Emanuele III, pronuncia a Montecitorio il discorso definito più antiparlamentare della storia italiana: ironia della sorte, l’ingresso alla Camera del più giovane Presidente del Consiglio d’Italia avviene esattamente tre anni dopo da quel 16 novembre 1919 che lo vide crollare alle prime elezioni del primo dopoguerra.
Il nome di Giacomo Matteotti ha faticato parecchio, nonostante la caduta del regime, a imporsi nuovamente nel dialogo storico e politico dell’Italia repubblicana: tutto ciò in contrasto con una toponomastica nazionale che gli ha intitolato 3900 fra vie e piazze. Soltanto negli anni ’70, per volontà di Sandro Pertini, sono stati pubblicati i suoi discorsi, e solo nel 1978 è indetto il primo congresso di storici sulla figura del deputato rodigino. Una certa, analoga diffidenza ha espresso la grande editoria che ha declinato per anni la proposta di pubblicazione di materiale a lui dedicato: diffidenza “spezzata” proprio quest’anno da Einaudi che ha dato alle stampe “Contro ogni forma di violenza”.
Paolo Giorcelli