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Prelati monferrini, di Aldo Timossi
Gerolamo Francesco Miroglio (24) - Il cugino eretico
“Famiglia antichissima oriunda da Beatino (Biella) ed il cui capostipite sarebbe un Bartolomeo che viveva nel sec. IX”. Arriva dunque dall’antica Blatinum, località dell’attuale Borriana, la famiglia dei Miroglio di Moncestino.
Da “epoca remotissima” signori di Cunico, Marcorengo, Ozzano, Villamiroglio e Montiglio; tra fine ‘200 e inizio ‘300 investitura anche per Moncestino. Da tanta nobiltà nasce - forse a Fontanetto o a Trino, al tempo diocesi di Casale, come testimonia la visita pastorale dello stesso Miroglio nel 1668/69 - Francesco Gerolamo; il “Catalogo illustri scrittori” del canonico Morano cita la lapide funeraria del 1679 dove si legge “aetatis LXXIV”, età di 74 anni, quindi è l’anno 1605.
Vocazione fin dalla giovane età, ordinazione sacerdotale il 23 settembre 1628 e laurea in diritto civile e canonico a Roma. Ha il titolo di conte, è prevosto della Cattedrale di Casale, carica alla quale si aggiungerà nel 1652 quella di elemosiniere e “consigliere di coscienza” del re francese Luigi XIV. Nel 1630 il vescovo Scipione Agnelli lo nomina pro-vicario, poi per lungo tempo vicario generale. Alla morte di Agnelli nell’ottobre 1653, i Casalesi devono aspettare un paio danni prima di avere un successore.
E’ l’estate 1655, quando - scrive il De Conti - il duca Carlo II Gonzaga manda un ambasciatore presso il Papa Alessandro VII, eletto da poche settimane, proponendogli come pastore della diocesi evasiana Gerolamo Miroglio, “di spirito nobile e di amabili qualità”.
Su tale proposta, raccogliendo frammenti di notizie su varie fonti, emerge un curioso gossip. Gerolamo ha un cugino, Mario, esso pure già canonico casalese, protagonista - si legge nella “Rivista di storia della Chiesa” del 1970 - di un “clamoroso caso di apostasia” cioè di rinuncia alla propria fede, nel 1643. Si allontana da Casale “dopo un rimprovero del suo vescovo perché viveva scandalosamente” (così in “Historia genevrina”) per rifugiarsi a Ginevra; è “catechizzato dal pastore calvinista Giovanni Diodati, si sposa ed ha figli”, e nel 1659 conoscerà tal Gregorio Leti, letterato e pubblicista! Questi riferisce a Mario che la designazione di Gerolamo come vescovo, da parte del Gonzaga, sarebbe stata sponsorizzata al duca dalla sua nota amante casalese, contessa Margarita Della Rovere, “in cambio della garanzia di una complice indulgenza della chiesa locale” (Laura Chirello, uscito l'articolo ci segnala che Mario era nato a Moncestino il 20 settembre 1592 e morto a Ginevra il 18 settembre 1664, ndr)
Monsignor Gerolamo, convocato a Roma per il rituale esame, presente il Pontefice, risponde “ottimamente nel diritto canonico, gli eminentissimi prelati esaminatori ne restano ammirati e il Papa lo riconosce come soggetto molto abile per santa chiesa”. Il 29 novembre 1655 arriva la nomina, quindi la consacrazione. E’ fine gennaio quando si mette in viaggio per l’ingresso a Casale. A Frassineto Po, al tempo diocesi di Milano, veste gli abiti vescovili su permesso speciale, quasi un ordine, dell’arcivescovo e amico Alfonso Litta, “acciò possa si da colà lasciarsi vedere vescovo”. In città è accolto da “molti gentiluomini e andò subito al duomo, in cui vi concorse quasi tutta la città per vederlo, e poi fu accompagnato da tutti in vescovado”.
Ha intanto un incarico da svolgere come commissario apostolico: dirimere una causa “di gravissimi interessi nel principato di Masserano, giurisdizione della chiesa, nella quale si maneggia con molta soddisfazione del medesimo pontefice”. Il primo anno da vescovo lo vede tra l’altro impegnato dall’incontro con la ex regina di Svezia, Cristina Augusta Vasa, che avendo abdicato in favore del cugino Carlo Gustavo, di ritorno da un viaggio a Parigi è diretta a Roma. Arriva in “battello riccamente ornato e pavesato”, il 25 ottobre, in una Casale sotto assedio tra spagnoli e francesi che hanno comunque concordato una tregua di alcuni giorni. All’approdo nel porto al fondo della via di Po (oggi Lanza), è ricevuta con ogni onore dal duca Carlo II Gonzaga e dalla nobiltà monferrina. Il giorno successivo, lasciato l’alloggio nel castello, raggiunge in carrozza il duomo accolta dal vescovo, che celebra Messa poi l’accompagna in una lunga visita al tempio, quindi alla chiesa di San Domenico.
Aldilà dell’aulico incontro, monsignor Miroglio deve dedicarsi subito ai doveri episcopali e compie la prima visita pastorale in città, occupandosi anzitutto della cattedrale, dove anni dopo farà costruire un nuovo altare in marmo nero con inserti in pietra e marmi policromi (ridotto a seguito dei restauri ottocenteschi, è oggi ancora visibile al fondo della navata di destra, dedicato alla Madonna delle Grazie). Altre due si svolgeranno nel 1660 e 1669. Difficile raggiungere le parrocchie periferiche, quindi si affida a due vicari generali, Andrea Crosetti e Angelo Francesco Emilio.
Una delle maggiori preoccupazioni riguarda la situazione degli edifici di culto. Nel marzo 1660 pone la prima pietra per la chiesa dei francescani in Santa Maria del Tempio, sotto il titolo della Madonna degli Angeli; sostituisce un piccolo convento con cappella, “sufficiente per quattro religiosi”. Contribuisce personalmente, con “carità e liberalità” alla riedificazione della parrocchia cittadina di Santo Stefano, “che da ogni parte minacciava rovina”, su progetto di Sebastiano Guala, canonico di Santa Maria di Piazza e “industrioso architetto”. Nell’aprile 1671 benedice l’inizio dei lavori per la chiesa di San Filippo, intitolata all’Immacolata Concezione, anch’essa su progetto del Guala; anni dopo, il duca Ferdinando Carlo la nominerà quale chiesa ducale.
E’ il maggio 1673 quando è vittima del primo “accidente apopletico”, quello che oggi definiamo ictus, con problemi cerebrali; “non fu più lui”, scrive il De Conti, non potendo specificare l’entità del danno e limitandosi a definirlo “balbuziente e indebolito nei sensi e nel corpo”. Purtroppo al suo fianco c’è un segretario un poco spregiudicato, il canonico Evasio Francesco Rossi, “da lui innalzato di troppo”, che in qualche misura profitta della situazione e caccia dal vescovado il canonico Benedetto Montagnino, nipote del vescovo per parte della sorella, sostituendolo con un fedelissimo. Miroglio comprende la situazione, di fatto non è in grado di esercitare il proprio ministero, ma teme di lasciare la diocesi in non buone mani, quindi resiste alla tentazione (e forse agli inviti) di dimettersi: “voglio morire da vescovo” ripete risoluto. Questo, anche dopo un secondo ictus ad ottobre, che gli blocca la funzionalità dell’occhio sinistro.
Nonostante le minorazioni, convoca nel 1677 il sinodo diocesano, il terzo dopo quelli del 1658 e 1671. Purtroppo, il 15 settembre 1679, “sopraggiunto nuovo e più fiero colpo di apoplesia, a monsignor vescovo Gerolamo Miroglio convenne cedere, e lasciare l'umana spoglia”. Solenni funerali in Duomo, vestito degli abiti pontificali, quindi sepolto “ai piedi della sedia episcopale, attiguo alla ossa di monsignor Scipione Pascali”, vescovo dal 1615 al 1624. La lapide in latino lo ricorda quale “splendore della stirpe dei Miroglio, esimio nella virtù, sommo nella pietà, grande nella modestia, singolare nella scienza, giusto, gioviale, magnanimo”.
aldo timossi
24- continua