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Vivere o scrivere?

di Elio Gioanola

Dice uno scrittore di cui non ricordo il nome che scrivere è, in certo modo, rifiutarsi o, almeno essere incapaci di vivere, come se la scrittura assorbisse tutte le forze vitali. Tutto il Novecento letterario, ma forse la letteratura di ogni tempo, esige in qualche modo sacrifici umani, almeno da quando si è resa indipendente da ogni forma di obbedienza ai detentori del potere politico, e quindi economico. Non è certo un caso che i due massimi rappresentanti della nostra letteratura moderna, cioè Leopardi e Manzoni, siano stati dei nobili, esentati per questo dalla necessità di guadagnarsi da vivere lavorando (per Leopardi con tutte le sofferenze e umiliazioni di una nobiltà costretta, con tutte le resistenze del conte Monaldo, a mantenersi con gli scarsi proventi della scrittura e i pochissimi sussidi familiari). Ma ancora Giovanni Verga era un barone siciliano, che fu mantenuto dai sussidi domestici fino a quando poté rendersi indipendente coi proventi del proprio lavoro. Viene da pensare che molte sofferenze degli scrittori dell’ultimo secolo siano anche in rapporto con la loro precarietà economica, essendo stati costretti a mantenersi variamente con attività indipendenti dall’impegno artistico. Personalmente, almeno nelle forme attenuate di un lavoro letterario non creativo, ho operato fino a farne il fondamento della mia convinzione di un’equivalenza tra sofferenza e creatività, per cui ho condotto si può dire tutte le mie ricerche sul fondamento di quel rapporto. C’è insomma uno stretto rapporto, per lo meno nell’età moderna, a cominciare da Dostoevskij e dal famoso esordio di Ricordi dal sottosuolo “sono malato, sono malvagio”, tra le forme più varie dei malanni e l’operare creativo. Nel mio caso, se può valere qualcosa una confessione di questo tipo, ho finito per convincermi di questo rapporto molto stretto in forma personale, per la coincidenza esistenziale di esaltazione e disperazione, che ho finito per trasferire nel mio modo di affrontare le opere letterarie. Anche perché non mi sono mai abituato, per le pesanti responsabilità familiari, a sacrificare la vita per la letteratura. Insomma ho provato, non so con quali risultati, a convivere con l’una o l’altra opzione, tenendo un occhio fisso ai libri, da leggere e scrivere, e un altro alla vita e alla famiglia, sapendo benissimo di occupare una terra di mezzo potenzialmente infelicitante, troppo preso dalla letteratura per dedicami a tempo e animo pieno agli impegni famigliari e troppo nel contempo geloso della vita vissuta per abbandonare le convinzioni profonde che hanno dato linfa ai doveri e impegni familiari. Non è molto comodo stare coi pieni sulle passerelle, tentato da una pienezza che non è stata concessa alle generazioni novecentesche. In un secolo in cui la malattia è stata sentita come diminuzione e accrescimento di vita, restare a metà strada è stato scomodo e generatore di sofferenza, ma insomma forse a qualcosa è stato utile, intanto per eliminare l’illusione di facili aggiustamenti.

Elio Gioanola