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Prelati monferrini (28), di Aldo Timossi
Pietro Secondo Radicati - Nato a Cella Monte il 9 marzo 1671 - Consacrato vescovo a Roma il 22 maggio 1701
Quella di Pietro Secondo Radicati è certamente, tra i vescovi monferrini, una delle figure più discusse, vivaci, controverse, per certi aspetti contestate.
Nasce a Celle (dalle celle vinarie, gli infernòt) ora Cella Monte, il 9 marzo 1671. Nobile ascendenza, quella dei Conti di Cocconato, nome progressivamente sostituito da quello di Radicati.
Paggio e poi segretario alla corte dei Gonzaga, uomo d’armi con i francesi, un breve periodo di studi religiosi dai Gesuiti, nel 1700 la laurea in diritto, seguita in tempi fulminei dall’ordinazione a diacono e a presbitero. “Pratica la disciplina militare e tale circostanza può avere influenzato l’energia del suo atteggiamento da ordinario diocesano”, scrive il casalese professor Alberto Lupano nella pubblicazione (2021) “Dai Gonzaga ai Savoia: il vescovo Pietro Secondo Radicati, pastore, giurista, politico”. In effetti già la scelta da parte pontificia non è semplice. Nome proposto ad Innocenzo XII, inizialmente non piace al successore Clemente XI “a motivo che non poteva avere la scienza propria d'un ecclesiastico, avendo passato i suoi anni nelle corti e fra le armi”, ma dopo il prescritto esame è ritenuto valido, anzi un vescovo quale si può trovare di rado. Per lui sarà coniato il malizioso detto “da risponder bene o male, vada vescovo di Casale”!
Il 9 maggio 1701 la nomina e il 22 dello stesso mese la consacrazione, nella chiesa romana di San Callisto, da parte del cardinale Toussaint de Forbin de Janson, o per qualche fonte addirittura del Papa. Arrivando da Roma nel Luglio 1701, “portossi al Torrione di Morano, ove stette sino ad un’ora di notte, quindi entrò in incognito in Casale ad alloggiare nella casa paterna, a porta chiusa per evitare visite”. Solenne ingresso in diocesi il 24 Settembre, con “giubilo universale e spari di mortaretti”. Il giorno successivo ecco già la messa in riga del gregge: ordine di ricognizione per tutti i beni dipendenti dalla mensa vescovile, alla quale dovrà ricondursi ogni entrata. Il pastore sa di dover governare una diocesi nella quale - leggiamo nell’approfondita ricerca del Lupano - “sono cresciuti gli abusi da correggere, circolano tante consuetudini, anche contra legem, tollerate in passato, ora anacronistiche, superate; chi le pratica lo fa per spirito di casta, per omaggio a una tradizione isterilita che ha ben poche ragioni d’essere; Il novello presule vuole portare ordine giuridico e governare il gregge che in quel tempo forse non è dei migliori”.
Vivace il confronto con i canonici del duomo, che sfocia nel giugno 1707 addirittura in una loro sospensione a divinis, per non aver voluto addobbare l’altar maggiore in occasione di un pontificale: provvedesse il vescovo direttamente!
Il Capitolo ricorre alla Santa Sede, Radicati corre a Roma per difendersi, arrivano notizie contradditorie, pare siano confermati scomunica e interdetto, poi le sanzioni vengono annullate: monsignor Coconato (così lo definisce sempre il De Conti) si trova nel palazzo di famiglia a Cella per curarsi la gotta, e il povero messo di Rosignano incaricato della notifica è preso a bastonate dai servi dei Radicati. In tempi già difficili per il contenzioso tra Savoia e Papato, Radicati si scontra un po’ con tutti, dalle confraternite alle chiese locali, dai catechisti alle “gentildonne” che fanno questua, fino all’aristocrazia, arrivando a scomunicare il conte Giacomo Sacchi di Nemours.
A testimoniare del clima non facile tra il pastore e il gregge da pascere, le testimonianze su non poche visite finite maluccio, con porte sbarrate (Occimiano), abati assenti (Monte Calvario), portoni da abbattere a colpi di scure (Grazzano). Ci sono problemi di attribuzioni, e sovente anche di gestione delle spese. Oggi il vescovo arriva in visita con autista e segretario, ma illo tempore il corteo è ben più nutrito. Radicati cerca di essere comunque misurato. Scrivendo ad esempio alla comunità di Monteu da Po, raccomanda la frugalità della mensa, 18/20 persone su due tavoli (i vip e la “bassa famiglia”), niente cibi rari né dolci, niente regali; per il trasporto, risparmiare sui cocchi, solo un paio di “barozze per il trasporto della robbe”, alcune paia di buoi, qualche cavalcatura.
Nel gennaio 1714, manda messaggi a tutte le parrocchie delle ben diciotto vicarie per informare di aver rifiutato il trasferimento alla diocesi di Senigallia. In quella proposta c’è lo zampino dei Savoia, infastiditi dall’avere in casa un vescovo tanto battagliero, che ha sempre mal digerito l’annessione del Monferrato allo Stato sabaudo.
Tra una polemica e l’altra, appaiono comunque cose concrete. Ha ruolo importante in molti interventi per la sistemazione delle chiese, in periferia e in città (tra questi, conclusione dei lavori e consacrazione di San Filippo nel 1721 e Santa Caterina nel 1726), oltre a rilevanti lavori di restauro del palazzo vescovile e del seminario. Senza dimenticare il ruolo di mediatore svolto nel 1706 per l’inevitabile ingresso incruento dei Savoia a Casale.
Negli anni, il cattivo rapporto con i Savoia gli procura non pochi guai, compresi periodi d forzato allontanamento da Casale. L’ultimo, a fine 1726, lo porta a Roma, chiamato dal Papa per dirimere una vertenza che riguarda l’attribuzione di Lucedio. Scrive ai parroci, si giustifica di non poter fare incontri di persona, quindi li “visita per via di lettere, come mezzo più espediente e più adattato alle presenti circostanze”.
Il trasferimento arriva comunque nella primavera 1728, quando Benedetto XIII, che l’anno prima ha firmato un concordato con il Regno di Sardegna, decide la nomina di monsignor Radicati a Osimo-Cingoli. Facile immaginare che tra le pieghe dei colloqui fra Roma e Torino, qualche emissario sabaudo abbia inserito la richiesta di allontanare dal Piemonte quel vescovo oppositore.
Si congeda da Casale con una messaggio ai sindaci, assicurando che “sebben lontano, non tralascierà cosa alcuna a vantaggio della sua patria, e di servirla in ogni occorrenza”. Non avrà risposta, dall’alto arriva l’imposizione di “non conservare alcuna corrispondenza con il monsignore privo della grazia reale”. In compenso, nella nuova sede - ricordano le “Memorie istorico-critiche della chiesa e de’ vescovi di Osimo” - è accolto “con sommo giubilo”. Soffre della cronica podagra e di altri malesseri, si muove a fatica ma non manca quasi mai alle sacre funzioni. Pronuncia “zelanti omelie” verso clero e fedeli, non manca di “usare la verga per richiamare i traviati nella strada di salute”. Cura la sistemazione del palazzo vescovile, fonda un’accademia di teologia per meglio preparare i presbiteri, introduce l’esercizio della buona morte. E’ attento ai poveri, per i quali spende “considerevoli somme”.
Il male si aggrava nel novembre del 1729. Comprende di essere giunto al termine dei suoi giorni e detta le ultime disposizioni testamentarie. Nella cripta della cattedrale indica il posto dove dovrà essere sepolto. “La sera del 1° dicembre, verso le due ore della notte, rese placidamente l’anima a Dio”.
aldo timossi
28-continua