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I Romani e il dialetto, di Aldo Timossi

Base il Glossario etimologico piemontese

Se molte delle vecchie parole dialettali derivano da lingue d’Oltralpe, specie in area francese ed elvetica, di altrettante si comprende il significato guardando al latino, lingua che a sua volta ha influenzato il parlare del continente europeo. Indagare il significato di parole oggi sempre meno usate - scrive, a fine Ottocento, Giuseppe Dal Pozzo di Mombello (autodefinitosi  “Maggiore”) nel suo “Glossario etimologico piemontese”, base, purtroppo a volte un poco discutibile, per queste brevi note - aiuta a capire da dove è venuta la gente, che da tremila anni “si è posata e vive tuttora robusta nella regione pedemontana, poi con quali altre genti ha quella avuto contatto dalla sua prima venuta fino ad oggi, ed infine, qual è stata l’origine e qual è il tipo del suo linguaggio attuale”.

L’insediamento dei Romani nel Piemonte inizia solo nel secondo secolo dopo Cristo, ben più tardi rispetto ad altri territori dell’Italia settentrionale, ma l’influenza nel parlare delle genti autoctone fa grandi progressi. E si protrae nei secoli, fino ad oggi.

Per iniziare da Morano sul Po (lo cito spesso, lì son le mie radici!), oggi c’è ancora, intorno alla zona dell’attuale piscina, la regione “Braida”, come esistono uguali toponimi in non pochi altri paesi. La “braja”, in un latino un poco tardo suonava “braium” o “braiotum”, ebbe a significare terra grassa, campo suburbano coltivato a prato. Forse non a caso oggi si chiama “regione Giardino”! Non distante, si dirama da viale Stazione, verso la strada per Trino, la “regione Chioso”, il “cios”, dal latino “clausum” - chiuso, probabile antica zona degli orti, chiusa rispetto al centro abitato. Più in periferia, verso il Po, ecco la “b’nna”, letteralmente cesto di vimini, ma usato fin dai Celti, poi dai Romani, nel senso di capanna, casupola di frasche. Probabile che alla “b’nna” i contadini costruissero semplici ripari dalle intemperie. Ovviamente, in caso di tempo pessimo, il coltivatore doveva “rabastare”, da “rapere” cioè raccogliere in fretta il poco raccolto e scapparsene a casa.

Chi voleva difendersi dagli animali predatori, costruiva intorno all’orto o al pollaio, la “ciuenda”, la “claudenda” del dire latino, uno sbarramento fatto di paletti di legno o frasche, infissi nel terreno e legati tra di loro, o semplicemente una cortina di siepe sempreverde. Di rado, in un angolo del campo si poteva trovare il “gias” di un leprotto, il giaciglio dal “iacere” latino. Se il cane lo scopriva, lo si sentiva “baulà”, da “baubari”. Qualcuno coltivava uva nella “topia”, il pergolato, dall’omonimo termine latino che, dal significato iniziale di albero modellato, o giardino, finisce per indicare solo la vigna, il particolare per il tutto! Nei periodi di siccità, bisognava adacquare i coltivi, e per convogliare l’acqua il contadino scavava la “caussàgna”, il fossatello, dal latino “cavus aquae” - passo dell’acqua. Per setacciare le granaglie si usava il “cribi”, da “cribrum” - setaccio. Per i maschi, agricoli o meno, è quasi obbligo portare i baffi, i “barbis”, dal latino “barbitium”

Lavorando con attrezzi di legno e ferro, poteva capitare di darsi una “farlècca”, un colpo sul piede o in un braccio - nell’antica Roma, la “ferula”.....

a.t.

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