«Dal grande cancello, che immette nella prima corte del principato di Lucedio, è visibile la facciata della chiesa settecentesca di Santa Maria. La demolizione della chiesa medievale originaria iniziò nel 1728 e solo dopo diversi anni si costruì il nuovo edificio religioso. I lavori, che presero avvio nel 1766 e durarono circa tre anni, furono promossi dall’ultimo abate commendatario di Lucedio, il cardinale Delle Lanze, e furono diretti dal capomastro Giovanni Battista Felli, su progetto di un monaco cistercense: l’architetto milanese Valente de Giovanni».
Così si legge nel volumetto intitolato “Abbazia di Lucedio. La storia. Visita guidata. Il restauro” pubblicato dalla Sagep Editori per conto della Provincia di Vercelli.
Conosciamo, grazie ad una planimetria
realizzata nel 1722 pochi anni prima della distruzione dell’antica chiesa abbaziale di cui è rimasto ben poco, il tipico schema lombardo adottato nelle chiese dei cistercensi che fondarono questa insigne istituzione monastica nel 1123, poco dopo la fondazione dell’ordine di Citeaux in Borgogna.
E a proposito della costruzione settecentesca la preziosa guida afferma: «La pianta, di forma rettangolare, presenta gli angoli smussati. La navata unica è movimentata da cappelle laterali, poco aggettanti, sormontate da matronei, ed è coperta da una volta costolonata interamente affrescata. Tre gradini ed una balaustra dividono l’aula dalla zona presbiteriale, chiusa da un’abside. L’interno è stato abbellito con decorazioni in stucco dall’artista luganese Giuseppe Cappia, che entrò nel cantiere nel 1768: egli impiegò un anno per completare le finissime decorazioni sia delle pareti interne sia del portico esterno. Quest’ultimo, in stile barocchetto, abbellisce l’elegante facciata, suddivisa in due ordini, e sormontata da un fastigio centinato».
In passato l’edificio religioso ha accolto molti capolavori di arte pittorica, tra cui il raffinato trittico di Macrino d’Alba realizzato su incarico dell’abate commendatario di Lucedio Annibale Paleologo (da tempo custodito nel Vescovado di Tortona).
Due pregevoli pale d’altare che ornavano la chiesa sono ora in cura presso il laboratorio vercellese Ferrari Restauri (vedi articolo a fianco). Si tratta di “San Benedetto, santa Scolastica e la Trinità” opera del noto pittore casalese Pier Francesco Guala (Casale Monferrato, 1698 – Milano, 1757), un tempo conservata con “San Bovone” in presbiterio, forse provenienti dalla chiesa di Sant’Oglerio, detta “chiesa del popolo”, in quanto fu la parrocchiale fino al 1787.
L’altra tela, che raffigura l’ “Assunzione della Vergine con il beato Oglerio, San Bernardo e San Giovanni Battista” riporta nel cartiglio l’autore e la data: “Franciscus Mayerle pinxit, 1757”. Si tratta di Francesco Antonio Mayerle nato a Praga nel 1710 e morto a Vercelli nel 1782. Di lui si conoscono le circostanze del suo arrivo in Piemonte nel 1741, quando il re di Sardegna Carlo Emanuele III comprò a Vienna l’intera collezione di quadri del principe Eugenio di Savoia, allora di proprietà della principessa Vittoria di Carignano, moglie del principe di Sassonia.
In quella occasione l’artista boemo accompagnò il pittore viennese Giovanni Adamo Wehrlin, incaricato di accompagnare nella capitale sabauda il prezioso convoglio.
Al laboratorio Ferrari di Vercelli
Mercoledì mattina 12 dicembre: appena dopo Villanova il triangolare Monviso apre uno scenario fantastico di cime innevate della catena alpina dominate dal Monte Rosa.
Siamo diretti a Vercelli dove, grazie a un sopralluogo di Massimiliano Caldera, funzionario della Soprintendenza, Beni culturali, vedremo in anteprima due pale d’altare di Lucedio, tele in fase di restauro.
Sono dipinti di Pier Francesco Guala e Francesco Antonio Mayerle, pittori del Settecento ritirati a suo tempo (1987) per motivi di sicurezza dal “Principato”, collocati in deposito alla Biblioteca di Trino da qui a Vercelli nel laboratorio “Ferrari Restauri” per un salvataggio non facile ma che sta dando i primi risultati. Alla nostra visita sono presenti Giorgio Gaietta e Raffaella Rolfo,il primo responsabile e coordinatore dei restauri in corso a Lucedio, la seconda (che per noi è sempre l’architetto del Duomo) progettista e direttore degli stessi lavori.
Arriviamo mentre è al lavoro con Maria Grazia Ferrari, Veronica Sfondrini che sta materialmente spalmando su una tela, quella di Antonio Mayerle, l’agar, un’alga idrocolloide con proprietà addensanti, in parole povere un assorbi sporco naturale, ‘‘Un peeling che porta via secoli di polveri...”, commenta Raffaella Rolfo quando ci vede in difficoltà sui discorsi tecnici della restauratrice titolare Ferrari.
E’ un privilegio poter ammirare da vicino queste opere d’arte e di storia (pensiamo all’importanza di Lucedio, a chi le ha viste prima di noi nel loro splendore senza la polvere, le cadute di colore, i regali dei piccioni) mentre Caldera le illustra con passione e competenza: “Le abbiamo ritirate nel 1987 da un degrado spaventoso della chiesa e ora stanno tornando alla primitiva bellezza. Due tele tanto importanti quanto differenti. Il Mayerle ha una composizione attenta, impostata su linee ben riconoscibili per la circolarità dei gesti, una stesura raffinata che lavora per velature e sovrapposizione di tinte calibrate”. Il Guala è “un pittore straordinario, più immediato, gli bastano pochi colpi di pennello per creare la scenografia...”.
Giornalisticamente aggiungiamo che questo restauro ha un preventivo di 24 mila euro su un finanziamento più cospicuo (Progetto Beaumont della compagnia di San Paolo) che deve recuperare altre tele e arredi di Lucedio sempre in deposito in luogo sicuro: tre pale, quattordici stazioni della Via Crucis, una statua lignea della Madonna del Rosario, un leggio, un tabernacolo, di cui vediamo le foto.
Buone notizie da Gaietta: “Le due tele saranno pronte entro marzo e potremo esporle a Lucedio e poi in Museo”. Forse, aggiungiamo noi, al castello paleologo di Trino che andrebbe meglio utilizzato. Questo in attesa che si completi il risanamento totale di Santa Maria, fiore all’occhiello del grande complesso che potrebbe diventare una attrattiva turistica di livello europeo.
PER SAPERNE DI PIU'
Lucedio è un complesso abbaziale nei pressi di Trino, fondato nel primo quarto del XII secolo ad opera di alcuni monaci cistercensi provenienti da La Ferté a Chalon-sur-Saône, in Borgogna su terreni donati loro dal marchese Ranieri I del Monferrato della dinastia degli Aleramici.
Citazione per il Beato Oglerio da Trino che governò l'abbazia dal 1205 al 1214, data della sua morte. Venerato presto dai confratelli, il suo culto fu approvato in via ufficiale da papa Pio IX.
Il patrimonio terriero dell'abbazia si estendeva ben oltre le terre prossime al monastero (con le grange di Montarolo, Darola, Castel Merlino, Leri, Montarucco, Ramezzana, ecc.), comprendendo anche appezzamenti dislocati in un'area vasta nel Monferrato e nel Canavese.
Nel 1457, con breve di papa Callisto III, il monastero cessò di essere di pertinenza diretta dell'ordine cistercense, divenendo Commenda, posta sotto il patronato dei Paleologi (con diritto, di nomina dell'abate e di riscossione di rendite).
Esauritasi, dopo quella degli Aleramici anche la dinastia dei Paleologi, il feudo passò ai Gonzaga.
Nel 1784 – dopo un periodo di forti attriti con la diocesi di Casale per la nomina dell'abate commendatario, l'abbazia venne secolarizzata e le sue grange divennero parte della Commenda Magistrale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia.
Nel 1792 l'Ordine di San Maurizio conferì la commenda al duca Vittorio Emanuele I di Savoia, ma dopo pochi anni il monastero cadde nei decreti napoleonici di soppressione degli ordini religiose. Fu Napoleone a cedere la proprietà di Lucedio a Camillo Borghese, a parziale risarcimento delle collezioni d'arte che gli erano state requisite a Roma.
Nell'era post napoleonica le proprietà vennero divise in lotti e cedute a vari personaggi (tra i quali il padre di Camillo Benso, conte di Cavour). Il lotto con il complesso abbaziale di Lucedio passò al Marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio che, nel 1861, cedette la tenuta al duca Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia conferirono il diritto di fregiarsi del titolo di Principe. Nacque così il cosiddetto Principato di Lucedio, denominazione fregia tuttora il portale d'ingresso della tenuta.
Attualmente appartiene alla famiglia Cavalli d'Olivola.