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  • 11 settembre 2009
  • Casale Monferrato

A tè ‘n lèmbar - “Bati la loira” nel senso di “battere la fiacca”

Mio cognato Giuseppe Demichelis, quando da piccolo faceva storie nel mangiare, si sentiva dire da sua nonna paterna Rosa Cerruti di Terranova “a tè ‘n lèmbar” nel senso di “sei smorbio, schizzinoso”(ma si ricorda anche che con lembrità si indicava nel paese una ghiottoneria). Non conoscevo questo termine prima di leggerlo nei Proverbi Monferrini del Della Sala Spada (1901,p.221): lèmbar cmé ‘l gat,che significa “goloso come il gatto”. Forte della mia ignoranza, iniziai il giro di consultazioni presso parenti e amici. Dopo mio cognato interpellai l’erudito valcerrinese Teresio Malpassuto, che mi rispose con entusiasmo: “Il termine lembar è di una bellezza unica. Hai presente il gatto che quando vuole mangiare, anche se ha fame, comincia ad assaggiare di qua, di là, smette, riprende un po’ di qua e un po’ di là, e così via prima di decidersi a mangiare? Il bellissimo termine lembar, uno dei pochi che non ha traduzione in italiano, significa goloso, ma di gusti difficili. Non ti pare veramente bello?”. Certo ero d’accordo. Ma da dove deriva questa meravigliosa parola, mi chiesi spinto da irrefrenabile curiosità? Un termine simile si trova invero solo nel lucchese: lembrugio, che significa “ghiotto,goloso,ingordo” (“radunata di frati lembrugi” scriveva Lorenzo Viani nel 1925) e viene spiegato come un incrocio dei verbi “lambire” (nella variante lembire) e “leccare”. Lèmbar,così come lembrugio, pare collegato al latino làmbere (“leccare”), di cui potrebbe essere un aggettivo tipo piger,che ha dato il monferrino pigar, e altri simili. A seconda delle zone, mi ragguaglia Malpassuto, esistono varianti di lembar: lamber,lambar, lember (Alessandro Allemano di Penango mi scrive: “Da noi esiste lembrasùn, nella stessa accezione di goloso: lo usa mia mamma riferito ai gatti troppo golosi”). La forma originaria doveva però essere limber, come dimostra il termine greco lìmbos o limbòs, che vuole dire “goloso” e che è considerato un termine popolare “sans étymologie” (così lo definisce P. Chantraine, DELG,III,p.641). Ora, limber, da cui derivano le forme monferrine citate, è prelatino e appartiene a una lingua del sostrato paleoeuropeo tipo il ligure. Lo dimostra il basco comune, in cui troviamo il significativo termine linburi, che vuol dire “lascivo,lussurioso,sensuale”. Abbiamo quindi recuperato il significato primitivo della nostra antichissima parola. Durante la mia investigazione linguistica, presi in considerazione, a causa dell’assonanza con lembar, la parola “lèmbu”, caduta rovinosa, che conoscevo bene per esperienza diretta. Laura Rossi mi dà questo parere: si dice prendere un lembu quando uno cade rovinosamente, e quindi ruzzolare come un gatto. Per Malpassuto lembu “equivale a scivolone, caduta, patagneru, babiasà, cioè, cader di brutto.” Ho scoperto contro ogni aspettativa che anche lembu deriva dal sostrato paleoeuropeo. Lo dimostra il basco, in cui linburi vuol dire non solo “lascivo”,come abbiamo visto, ma anche “scivoloso,precipitoso” (linburtu vuol dire scivolare). Il lembu perciò indica lo scivolone dai primordi della civiltà europea. Il nostro dialetto ci conserva, in conclusione, due termini antichissimi prelatini. Dobbiamo essere sempre più consapevoli della ricchezza delle nostre parlate regionali, che vale perciò la pena di considerare come uno scrigno linguistico e storico prezioso da coltivare nell’uso quotidiano. Olimpio Musso Disegno di Laura Rossi La mia conoscenza dell’espressione dialettale “bati la loira” nel senso di “battere la fiacca” si basava non sull’uso vivo del casalese, mia lingua madre, ma sulla poesia di Cesare Vincobrio intitolata “La rata vouloira” (Sounett Mounfrinn, Casale 1925, p. 161), che comincia così: “Tuti ’n classe ai bativou la loira /quand ch’ j è ’ntraji ’na rata vouloira:/va a savei cme ch’l’ha facc par pasà,/se da qui, se da lì, se da là.” E continua: “Chieti ’nt l’oumbra dal tendi calaji/al masnà s’erou mesi ’mbabiaij/e j sgnoucavou batinda ’l testà/chi da qui, chi da lì, chi da là.” Ho fatto un’indagine presso i miei consulenti linguistici di varie parti della nostra terra e constatato che l’espressione, ancora viva nel 1925, oggigiorno non è più usata. Teresio Malpassuto, ottimo conoscitore del nostro dialetto, com’è noto, mi scrive sconsolato: “bati la loira ai miei tempi era usatissima e oggi praticamente è in disuso”. Oggi si usa dappertutto “bati la fiaca”. Aldo Timossi mi segnala invero che il termine è usato dal noto giornalista e scrittore casalese Giampaolo Pansa nel “Romanzo di un ingenuo” del 2000, dove si legge a pag. 150: “gli appassionati di niente, quelli che battevano la loira, che era poi la fiacca”. Giurerei che nel Pansa c’è una reminiscenza della poesia del Vincobrio, ancora oggi recitata da fini dicitori della nostra lirica dialettale. Nei “Proverbi monferrini” del Della Sala Spada (p. 250 seg.) si trova la seguente strofa: “La loira, la loira,/la bat tre voti ’l dì,/la matinà, la seira,/e l’ora dal mezdì”(La fiaccona, la fiaccona, la batte tre volte al dì, la mattinata, la sera e l’ora del mezzodì). All’epoca (1901) la loira era pienamente in vigore, tanto da indicare la fiacca dell’intera giornata nei tre momenti cruciali,quelli dei pasti, come nell’ operetta di Franz von Suppé “Mattino, mezzogiorno e sera a Vienna” del 1844 (Ein Morgen, ein Mittag und ein Abend in Wien), la cui ouverture ha continuato a riscuotere successo financo ai giorni nostri (in rete si può ascoltare una bella esecuzione di Riccardo Muti) : il titolo potrebbe, data la celebrità della composizione, aver dato origine alla nascita del nostro proverbio. Mi sono messo, come al solito, a indagare l’origine del termine e, sulla base soprattutto della fonetica, sono giunto alla conclusione che si tratta di un termine franco (lingua di Carlo Magno), lothr, che significa esca, richiamo, e appartiene alla terminologia della caccia col falcone (cfr. il provenzale loire, l’antico francese luerre, l’antico tedesco luoder, l’antico siciliano loyru). In italiano ha dato logoro, che è, come lo definisce il dizionario di Devoto e Oli, un “attrezzo costituito essenzialmente da un legnetto fornito di un mazzetto di penne, usato in falconeria per richiamare il falco presso il falconiere”. Dante usa il termine in Inferno XVII,128: “Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, / che sanza veder logoro o uccello / fa dire al falconiere «Omè, tu cali!».” Il logoro viene definito nell’Enciclopedia dantesca (X, 587 seg.) “arnese formato da un’asticciola e da penne legate a mazzetto, con cui il falconiere richiamava il falcone presso di sé”. Bati la loira significava dunque battere il logoro. Mentre si batteva il logoro non si facevano attività e quindi in un certo senso si era oziosi. Era risaputo, infatti, che per praticare la falconeria, caccia preferita dei re e dei nobili, bisognava disporre di molto tempo. Chi doveva lavorare non poteva dedicarsi a tale caccia. O. M

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