A Casale per il 'Portale' - Visita (con ricordi) della scrittrice casalese-torinese Elena Cappellano
Sono tornata, per un pomeriggio a Casale, attratta dalla mostra del Portale di Santa Maria di Piazza di cui sapevo prossima la chiusura.
Forse i ricordi che per me fanno tutt’uno con la città mi hanno guidata a parcheggiare la macchina vicino a quello che considero sempre il mio Liceo. Non è più giallo, è bianco. E dalla porta da cui entravano i compagni che frequentavano lo Scientifico si infilavano i cittadini con la scheda elettorale in mano.
Dopo aver visitato la mostra, pregevole e importante, anche se per me del tutto slegata da qualsiasi ricordo tranne che per il nome Leardi, dopo aver rivisto la Gipsoteca e la Galleria di quadri, ho iniziato, con la compagnia benevola degli amici, il mio breve pellegrinaggio per la città.
A questo punto, molto più intenso che tutte le volte precedenti, ha avuto luogo il fenomeno che certamente ha radici nel mio modo di sentire, ma che secondo me negli ultimi tempi è stato reso molto più intenso dall’abitudine e dalla tecnica cinematografica e temo, soprattutto televisiva di certe trasmissioni più o meno culturali che trasformano con una prospettiva storica i luoghi che prendono in considerazione.
Prendiamo via Roma, che un tempo non era cero pedonale, non presentandosene la necessità. In mezzo a quella che si potrebbe chiamare la “movida” locale del sabato (ragazzi e ragazze che chiacchierano ad alta voce, mangiano gelati e popcorn, danno un’occhiata distratta alle vetrine, gli occhi della mia memoria cercavano i soldatini del CAR, quasi tutti più bassi dei giovani attuali, che a quell’ora sciamavano dalle caserme in gruppi meno disordinati perché anche qualche ufficiale passeggiava nella sua bella divisa.
Non avrebbero trovato posto in quest’atmosfera – ma io li vedevo ugualmente – i miei genitori che facevano quattro passi prima di cena, tranquillamente a braccetto, facendo qualche commissione, fermandosi alle vetrine.
Già, le vetrine, appunto. Non una che fosse uguale a quelle di allora. Ma proprio qui entrava in azione il fenomeno di cui ho parlato, che cancellava le insegne delle catene commerciali che si possono trovare tutte uguali in ognuna delle città grandi o piccole, e le sostituiva con le altre: qui il fotografo Fioretta che aveva esposto a lungo molte immagini, fra cui la mia, notata dal Preside Omodeo.
La farmacia prima dei portici era gestita dalla moglie del mio dentista svizzero, il primo a prestarmi dei libri quando avevo dovuto studiare velocemente il tedesco.
Le vetrine di vestiti sulla destra cambiavano colore al mio passaggio ed esponevano i tessuti Unnra – non più di un taglio a testa- e la meritoria libreria Coppo che io frequentavo assiduamente quando si apriva sotto i portici lunghi a destra dell’ingresso in via Trevigi non riusciva a nascondere agli occhi del mio ricordo l’ingresso del Cinema Moderno, che di moderno non aveva proprio niente, ma era così accogliente nella sua atmosfera familiare.
Sotto i portici, le insegne che io considero banali perché le vedo in qualunque città, lasciavano il posto alla ”Casa del Dolce”, oggetto dei miei sogni golosi, al Bazar, con quel nome che allora suonava così esotico, alla Farmacia Freddi in cui officiava una signora che io consideravo anziana, alla oreficeria Foa dove ero entrata bambina con tutte le monetine del mio salvadanaio per comprare impudentemente un piccolo elefante argentato con la proboscide in su, per regalarlo ai miei genitori per il loro anniversario. Quello l’ho tenuto io: oggi è dorato e occhieggia di fianco ai ricordi esotici dei miei viaggi in Cina e in Thailandia.
Invece, sotto i portici corti, ho visto il banco di Giovannacci, che è stato il padre librario di tanti di noi.
Così fino al Caffé Savoia – perché lo ricordo come “Meschini”? – dove una volta le ragazze non entravano, ma mio padre andava a prendere l’aperitivo con altri funzionari di banca.
E poi la piazza, oh, la piazza!
Un conforto al mio atteggiamento visionario era offerto dalla proiezione di Santa Maria di Piazza che arriva quasi sino al monumento e che mi autorizzava a vedere in rapida successione le impalcature del 28 ottobre, con tutte le divise dei ragazzini – anche i Figli della Lupa che giuravano di difendere col loro sangue la Causa della Rivoluzione.
E poi, i tedeschi accampati dopo l’8 settembre, con le piramidi di fucili, e poi le auto dei partigiani e le prime jeep nei giorni della Liberazione; e poi le sere col naso in aria a fissare incantati le evoluzioni che la famiglia Palmiri svolgeva su filo teso al di sopra del monumento, così in alto!
E successivamente i comizi che la gente ascoltava pronunciati dal balcone sopra il Caffé, volgendo le spalle a quel Duomo che oggi è diventato sempre più bello.
Luigi (Angelino, ndr) che ci accompagnava, prima di lasciarci tornare alla macchina ha indicato con orgoglio al nostro accompagnatore la torre civica, ripulita e brillante nella luce del sole ormai basso. Allora, come un grido, mi è parso di udire l’ululato della sirena che il padre di una mia compagna di classe – si chiamava Cucchiara, credo – faceva echeggiare anche nel cuore della notte quando c’erano gli allarmi aerei che mi bloccavano il sangue nelle vene.
Casale, così carica di storia attraverso i secoli, ma anche di storie minime nella memoria di ognuno di noi!
Elena Cappellano
FOTO. Il portale nella mostra aperta fino al 28 giugno in S. Croce (f. Angelino)