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  • 06 novembre 2010
  • Moncalieri

Le élites del Piemonte sabaudo, da Moncalieri all’Unità: il ruolo di Massimo d’Azeglio e di Cesare Balbo

Questa la sintesi dell’intervento del casalese Roberto Coaloa, storico, docente all'Università Statale di Milano e giornalista a IlSole-24Ore, al castello di Moncalieri, sabato 6 novembre 2010. - Le élites del Piemonte sabaudo, da Moncalieri all’Unità: il ruolo di Massimo d’Azeglio e di Cesare Balbo tra re Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II e la classe politica dell'«altro Piemonte» - Alla vigilia dell’Unità, la classe politica del Piemonte sabaudo era sostanzialmente divisa in due parti. Esse non erano separate politicamente tra destra e sinistra storica, ma geograficamente: da una parte gli uomini politici torinesi e dall’altra quelli dell’area geografica, che una recente storiografia ha chiamato dell’«altro Piemonte». La storia del Piemonte dalla Restaurazione all'unità d'Italia è stata raccontata sul solco di una tradizione storica che dipinge un Regno di Sardegna retrivo. Una recente storiografia sfata la concezione di una capitale sabauda reazionaria, normalizzata attorno al clero tradizionalista e alla nobiltà di corte, e pone in luce i fermenti della nuova classe nobiliare e imprenditoriale. L'ALTRO PIEMONTE La nuova élite, però, non si forma a Torino, ma nell’«altro Piemonte», la zona orientale del Regno di Sardegna, compresa tra Alessandria, Casale Monferrato, Vercelli e Novara. Essa riuscì a creare i nuovi quadri dirigenti della società piemontese e le premesse di quella cultura riformatrice di governo che porterà ai ministeri Balbo, D'Azeglio e Cavour. Questa classe politica sbaragliò la camarilla della corte, una vecchia élite che si riunì attorno a Vittorio Emanuele I, dopo la Restaurazione, anziani nobili, dei cascami dell'Ancien Régime, che volentieri, come faceva lo stesso sovrano, affermavano di sentirsi uomini risvegliati da un lunghissimo sonno. CARLO VIDUA La nascita di una nuova cultura nel Piemonte risorgimentale fu un lento processo; dalla Restaurazione all'ascesa al trono di Carlo Alberto non si può parlare d’intellettuali operanti nel Regno di Sardegna: i più originali, Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Carlo Vidua (il 'viaggiatore' di Conzano Monferrato, ndr), operarono fuori dalla loro terra; la situazione fu drammatica nel 1821, quando Santorre di Santa Rosa, Luigi Ornato e Cesare Balbo divennero esuli, non volontari come i precedenti, per ritornare trasformati o non ritornando affatto, avendo incontrato un'eroica morte. Nel 1847 furono adottati da Carlo Alberto quei provvedimenti amministrativi che costituirono l'estremo tentativo di far argine alle richieste provenienti da un profondo conflitto di classe, acuitosi dopo il 1814 e il 1821, senza mutare la struttura dello Stato. LIBERTA' DI STAMPA Dal 1847 gli intellettuali e non solo quelli piemontesi, agirono nel Regno di Sardegna, divenuto l'unico Stato italiano a garantire la libertà di stampa. Dal 1847 si hanno, infatti, le più importanti iniziative editoriali: incominciano a circolare le idee di Cesare Balbo - che pubblicò la sua importante opera Delle speranze d'Italia a Parigi, in una rara edizione stampata solamente in 1500 copie, e che si esaurì rapidamente in Francia, Belgio, Inghilterra e Svizzera – e si diffondono le sterminate attività del poligrafo lombardo Francesco Predari. Le attività giornalistiche di Brofferio, Pinelli e Cavour, inoltre, creano un originale dibattito politico e gli esuli napoletani arricchiscono la cultura universitaria, mentre altri esuli come Carlo Pisacane portano nella Genova di Giuseppe Mazzini un’inedita circolazione delle idee tra nord e sud del paese. DA CASALE I PRIMI FERMENTI DI INDIPENDENZA COL CONGRESSO AGRARIO Dall'antica capitale del Monferrato, Casale, a quei tempi la seconda città piemontese, provengono i primi fermenti dell’indipendenza italiana: nel Congresso Agrario del 1847 si alzò per la prima volta il grido di «Viva l'Italia libera e indipendente». IL CARROCCIO In questo particolare clima politico un gruppo di cittadini inizia a pubblicare un giornale dalle idee liberali e nazionali. Il 21 gennaio 1848 i torchi della tipografia Corrado stampano il primo numero de "Il Carroccio", che porta il sottotitolo "Giornale delle Province". Franco Della Peruta lo citò come l'esempio di una stampa provinciale attiva nella mediazione tra i vertici dello Stato e la vita politica locale. I COLLABORATORI Collaboravano con Pier Dionigi Pinelli gli avvocati Carlo Cadorna, Giuseppe Caire, Cesare Cobianchi, Vincenzo Luparia, Gaspare Manara e Francesco Calandri, mentre il consiglio d'amministrazione della società editrice era formato da G.B. Artom, Filippo Deferrari e dagli avvocati Carlo Mazza e Bonifazio Zino. FILIPPO MELLANA Durante la direzione di Filippo Mellana, in piena prima guerra d'indipendenza, le vittorie a Goito (8 aprile 1848 e 30 maggio 1848) e la presa della fortezza di Peschiera (30 maggio 1848) furono salutate come premesse al reame del nord d'Italia. Il giornale, dal 6 maggio, raccolse le voci dei tenaci fautori di una rapida unione con la Lombardia, assumendo una posizione antigovernativa. Il 21 giugno il giornale patrocinò addirittura una petizione dove si leggeva: «Noi pensiamo che i Proprietari di Case di Torino non sono i proprietari dell'Idea Italiana». NUOVA CLASSE POLITICA L’«altro Piemonte» si contrapponeva, come area culturale, economica e politica, a Torino e al resto della regione; esso, dopo la proclamazione dello Statuto, fornì al nascente Stato costituzionale una nuova classe politica capace di portare a termine l'unificazione d'Italia. LANZA, RATTAZZI, MELLANA; CADORNA, PINELLI, LEARDI... Figure autorevoli come Rattazzi, Mellana, Lanza, Cadorna, Pinelli, Giovanetti e Leardi riuscirono a sconfiggere le forze reazionarie presenti nella corte di Torino e a superare lo spirito municipale, giungendo a quello nazionale. IL SENATO DI CASALE La nuova élite si formò in questa area socio-geografica, passata sotto i Savoia solo nel 1713, grazie all’intuizione del re Carlo Alberto, che ristabilì un “Senato” nel quale crebbe “il partito degli avvocati”. L’avvocato Carlo Cadorna di Pallanza (territorio che dal 1738 era passato sotto i Savoia) fu collega di Rattazzi nel foro di Casale. Questi avvocati, negli anni quaranta, condivisero l’ambiente liberale e riformatore dell’entourage giobertiano, essendo Pinelli in stretto contatto con il torinese, ma già dal 1837 Rattazzi si legò a Casale con uomini del partito riformatore. L'ANNUNCIO DELLO STATUTO L’annuncio dello Statuto, osservò Rosario Romeo, segnò la fine della vecchia monarchia piemontese. Carlo Alberto ebbe il merito di trasformare la monarchia, però, il merito d’aver sostenuto il nuovo Stato costituzionale spetta alla classe politica dell’«altro Piemonte», che in ragione di una cultura politica riformista, fedele al re, sostenne la nuova monarchia e lo Stato nel difficile biennio 1848-49. Questa nuova classe politica si riunì nel Parlamento subalpino nel Centro-sinistro, che trovò un compromesso con la fazione riformista della vecchia aristocrazia, guidata da Cavour, all’epoca del connubio. Silvio Spaventa, nel 1882, invitato dall’Associazione Costituzionale Casalese per commemorare Giovanni Lanza, attribuì al politico appena scomparso una posizione centrale tra gli esponenti del liberalismo moderato che dettarono un senso univoco al pensiero e all’azione della Destra storica. Il giudizio di Spaventa fu assai apprezzato da Benedetto Croce che, nel 1910, pubblicando gli scritti del patriota meridionale nella raccolta Politca della Destra vi inserì la commemorazione di Lanza. Non fu una scelta casuale: il casalese appariva figura emblematica per impegno politico, moralità civile, e naturalmente per quella azione di governo che lo aveva qualificato come uno dei maggiori protagonisti del liberalismo risorgimentale. Spaventa osservò: «Il connubio diede al Governo una base che non faceva più dubitare dell’avvenire delle istituzioni, e garantiva l’applicazione dei principi costituzionali in tutta la vita dello Stato. Esso immedesimò il Governo col paese, vale a dire coll’elemento suo nuovo più vivace ed attivo, la borghesia, di cui il Rattazzi era l’espressione più spiccata e fedele». Rattazzi era "l’espressione più spiccata e fedele della borghesia", la protagonista della nuova élite politica piemontese. Rattazzi, insieme a Giovanni Lanza, fu uno dei più costanti e infaticabili difensori della nuova politica del Piemonte risorgimentale. Se questa classe politica riuscì culturalmente e politicamente a concludere il Risorgimento, gran parte di questo merito si deve ascrivere ad una classe nobiliare piemontese, legata soprattutto alla cosiddetta periferia del regno, e ad una élite raccolta intorno ad una classe dirigente nuova, costituita da un corpo d’avvocati piemontesi, politicamente adatti alla formazione del nuovo Stato, poiché essi conoscevano perfettamente gli ingranaggi della macchina statale. I codici di Carlo Alberto sono i testi in cui si esercitò il partito degli avvocati, costituito da uomini che svolgevano con passione il loro impegno di civilisti. Una figura come quella di Rattazzi è esemplare di quel tipo politico, che prima di legiferare entrava nello spirito della legge. RATTAZZI E IL PARTITO DEGLI AVVOCATI Questo “partito degli avvocati”, con Rattazzi leader, è consapevole che solo una monarchia ancora politicamente attiva, e non ridotta a pouvoir neutre, può sostenere l’aspirazione della classe dirigente dell’«altro Piemonte» a trasformarsi in classe politica dell’intero Stato, in un’auspicabile espansione territoriale, soprattutto verso la Lombardia, dove gli stessi lombardi (anche con gli autorevoli Annali Universali di Statistica di Romagnosi), suggerivano tale progetto. Dopo il 1830, con la monarchia orleanista di Luigi Filippo in Francia, e con la riforma elettorale in Inghilterra, si va diffondendo in Piemonte una diffusa insofferenza negli spiriti più “illuminati” e attivi verso il regime reazionario governativo. LA FIGURA DI CESARE BALBO La figura più rappresentativa dell’élite piemontese è Cesare Balbo, che ha una nozione ben chiara della politica. L’esempio è l’opera balbiana Della politica nella presente civiltà, manoscritto pubblicato postumo a Firenze, nel 1857, con il testo Della Monarchia rappresentativa in Italia. Balbo è stato un cultore di scienza politica e ha adottato la formula «servire lo Stato», seguendo la «politica dell’equilibrio». IL CUGINO MASSIMO D'AZEGLIO I torinesi e cugini Massimo d’Azeglio e Cesare Balbo furono allineati - nel biennio decisivo del Risorgimento, 1848-49, alla classe politica dell’«altro Piemonte», allontanandosi dalla camarilla della corte di Torino. Nonostante la delusione della Prima guerra d’indipendenza e l’abdicazione di Carlo Alberto, il biennio 1848-49, mostrò le possibilità di una prospettiva unitaria in Italia e nonostante i rovesci subiti, sul piano materiale oltre a quello morale, aveva rafforzato il partito moderato. Questa situazione si realizzò per precisi motivi: il Regno di Sardegna fu l’unico Stato italiano a conservare la Costituzione concessa nel 1848 e soprattutto si affermò un regime parlamentare di tipo moderno. Massimo d’Azeglio ebbe il merito, come presidente del consiglio (1849-1852), di conservare il sistema parlamentare nel Regno di Sardegna, riuscendo a tenere in vita la costituzione albertina. Egli scrive a Roberto d’Azeglio l’8 settembre 1850: «sta pur certo che tutto il buscherio s’è fatto per buttar giù lo Statuto, e la religione era la maschera, al solito». POLO PER I PATRIOTI Il partito moderato piemontese, che univa la parte migliore dell’élite politica di Torino e della periferia del Regno, riuscì a fare dello Stato sabaudo il polo di attrazione dei patrioti italiani, dando ospitalità ed aiuto a coloro che, per motivi politici, erano costretti ad abbandonare la Sicilia, il Lombardo-Veneto e tutte le altre parti d’Italia. Questa emigrazione cagionò la nascita di una nuova cultura nel Piemonte aristocratico e dell’affermarsi nel decennio 1849-1859, il cosiddetto “decennio di preparazione”, di idee moderne che spinsero ad una veloce conclusione della fase risorgimentale. L'ABILE CAVOUR Questa cultura fu abilmente cavalcata da Cavour, che fu capo del governo piemontese quasi ininterrottamente dal 1852 fino alla morte. Egli fu il grande statista che realizzò il programma dei moderati, che riuscì ad arginare, nel canale della diplomazia, la rivoluzione: rese possibile la creazione di uno Stato italiano unitario utilizzando e strumentalizzando il movimento mazziniano, assorbendone gli obiettivi nazionali. LE RIFORME Cavour in politica interna realizzò importanti riforme che fecero del Piemonte uno Stato moderno, con una vita politica e culturale vivace, in grado di calamitare il movimento patriottico e di inserirsi con una propria forza nei rapporti internazionali. LA SVOLTA DI MONCALIERI Il successo di Cavour fu però garantito dalla svolta di Moncalieri e dai due cugini Cesare Balbo e Massimo d’Azeglio che furono i pilastri della nuova politica piemontese all’indomani della caduta di Carlo Alberto. LE FAMIGLIE Massimo d’Azeglio e Cesare Balbo furono anche protagonisti – con le loro famiglie – nelle guerre d’indipendenza. Cinque figli di Cesare entrarono nell’esercito. Ferdinando Balbo, nato nel 1828, morì nella battaglia di Novara il 23 marzo 1849. Balbo nelle sue opere aveva emendato le proposte utopiche di Gioberti (il papa, ad esempio, presidente della Confederazione degli Stati italiani), e poneva l’indipendenza quale condizione pregiudiziale della rinascita della patria italiana. Dagli schemi semplicistici, talvolta aerei del Primato di Gioberti, si passava a una visione più concreta, a un calcolo più equilibrato delle precise contingenze politiche. Su questo solco, si inserì Massimo d’Azeglio, che mise i governi e i popoli dinanzi alle loro esatte responsabilità. I due cugini torinesi trovarono il consenso dei politici dell’«altro Piemonte» nel difficile biennio 1848-49, sia della destra sia della sinistra storica: da Giovanni Lanza, a Filippo Mellana, da Urbano Rattazzi a Giacomo Giovanetti. VERSO L'UNITA' Il Risorgimento era così avviato verso l’Unità. A Parigi, Massimo d’Azeglio incontra Urbano Rattazzi. Insieme sono ricevuti da Luigi Bonaparte, prima che diventi Napoleone III, il futuro alleato di Cavour. Grazie all’alleanza tra la vecchia aristocrazia piemontese e la classe politica dell’«altro Piemonte», si giunge a una fase nuova del Risorgimento. Nella prima guerra d’indipendenza al Piemonte mancava l’appoggio internazionale; negli anni che precedono la Seconda guerra d’indipendenza, grazie all’intelligente lavoro dell’élite al governo, il consenso attorno al piccolo Stato sabaudo crebbe e diventò anche un aiuto militare. L’élite del Regno di Sardegna dimostrò all'Europa intera la concretezza dell'uomo piemontese, che, a distanza di più d’otto secoli, riprese un'antica idea di un avo della sua terra, portandola all'agognata meta. L’idea era dell'unico re rinnovatore della storia d'Italia, Arduino (non a caso fu un amico di Balbo, Luigi Provana, che scrisse gli Studi critici sovra la storia d'Italia a' tempi del re Ardoino, Torino, Dalla Stamperia Reale, 1844). Le figure di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Giovanni Lanza e Urbano Rattazzi emergono come tipiche di quella classe politica piemontese dell'Ottocento, che ebbe ben chiaro il significato della "scienza politica", e la distinzione fondamentale tra politica buona (intesa come "servire" lo Stato) e cattiva (intesa come "servirsi" dello Stato). Questa distinzione, resa con forza da Cesare Balbo, soprattutto nel suo scritto Della monarchia rappresentativa in Italia, era profondamente radicata nella coscienza della classe dirigente che operò non nella capitale, Torino, ma nella periferia del regno, l’«altro Piemonte». Roberto Coaloa. FOTO. L'intervento di Coaloa a Moncalieri dove erano presenti i discendenti di Cesare Balbo (1789-1853) Alessandro Radicati di Brozolo, Chantal Balbo e Emanuele Olmi. Un numero del Carroccio. La tomba Lanza a Casale (meritevole di restauro, f. Angelino) Nel lancio Cesare Balbo

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