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Mercati
Dazi Usa: Cia, allarme rosso per export agroalimentare
A rischio i vini: l’analisi alla decima Conferenza economica

«Chianti e Amarone, Barbera, Friulano e Ribolla, Pecorino Romano, Prosecco e persino sidro di mele. Nella guerra commerciale che rischia di aprirsi con l’arrivo dei dazi di Trump il 2 aprile, ci sono prodotti tricolori in pericolo molto più degli altri, perché tanto dipendenti dall’export verso gli Stati Uniti. E lo stesso vale per le regioni, con Sardegna e Toscana particolarmente esposte a perdite milionarie con le nuove tariffe a stelle e strisce».
È quanto emerge dall’analisi di Cia-Agricoltori Italiani, presentata alla sua decima Conferenza economica a Roma in svolgimento nei giorni 12 e 13 marzo, sulla base dei dati di Nomisma e dell’Ufficio studi confederale. Cia Alessandria-Asti è presente con una delegazione di dirigenti dal territorio: Daniela Ferrando, Paolo Viarenghi, Gabriele Carenini, Ivano Andreos, Piero Trinchero.
«Serve un’azione diplomatica forte per trovare una soluzione e non compromettere i traguardi raggiunti finora - ha dichiarato il presidente nazionale di Cia, Cristiano Fini -. L’export agroalimentare negli Usa è cresciuto del 158% in dieci anni e oggi gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino Made in Italy, con 7,8 miliardi di euro messi a segno nel 2024”. Secondo Fini, “l’Italia può e deve essere capofila in Europa nell’apertura di un negoziato con Trump, visto che abbiamo anche più da perdere».
«Gli Usa, infatti, valgono quasi il 12% di tutto il nostro export agroalimentare globale, mettendoci in testa alla classifica dei Paesi Ue, molto prima di Germania (2,5%), Spagna (4,7%) e Francia (6,7%)». Ecco perché «bisogna agire e fare di tutto per contrastare l’effetto deflagrante dei dazi Usa alle porte, tra danni enormi a imprese e cittadini, dilagare dell’Italian sounding e spazi di mercato a rischio occupazione da parte di altri competitor. A partire proprio dai prodotti e dalle regioni più esposti verso Washington».
Guardando ai prodotti Made in Italy che trovano negli Stati Uniti il principale sbocco, in termini di incidenza percentuale sulle vendite oltrefrontiera, «al primo posto si colloca il sidro, una nicchia di eccellenza che destina il 72% del suo export al mercato americano (per un valore di circa 109 milioni di euro nel 2024), seguito dal Pecorino Romano (prodotto al 90% in Sardegna), il cui export negli Usa vale il 57% di quello complessivo (quasi 151 milioni di euro)».
Per il vino italiano gli Usa sono la prima piazza mondiale con circa 1,9 miliardi di euro fatturati nel 2024, ma con “esposizioni” più forti di altre a seconda delle bottiglie: «A dipendere maggiormente dagli Stati Uniti per il proprio export sono infatti i vini bianchi Dop del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, con una quota del 48% e un valore esportato di 138 milioni di euro nel 2024; i vini rossi toscani Dop (40%, 290 milioni), i vini rossi piemontesi Dop (31%, 121 milioni) e il Prosecco Dop (27%, 491 milioni)».
Grandi numeri che i dazi possono scombinare, lasciando strada libera ai competitor di aggredire una fetta di mercato molto appetibile: «Dal Malbec argentino, allo Shiraz australiano, fino al Merlot cileno. Anche per l’olio d’oliva italiano gli Stati Uniti hanno un peso significativo, pari al 32% del proprio export (937 milioni di euro nel 2024), ma meno sostituibile nella spesa degli americani, e così a scendere per i liquori (26%, 143 milioni). Meno esposti al mercato Usa risultano invece Parmigiano Reggiano e Grana Padano, per una quota che pesa per il 17% del valore dell’export congiunto di questi due formaggi (253 milioni), così come pasta e prodotti da forno (13%, 1,1 miliardi)».
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