Articolo »

  • 19 gennaio 2011
  • Casale Monferrato

Gioventura Piemontèisa risponde all'articolo «Anfargiù o rafredur» pubblicato lo scorso 31 dicembre

In riferimento all’articolo apparso su Il Monferrato del 31 dicembre scorso, pag. 25, “Anfargiù o rafredur, il bello del dialetto è la sua varietà”, ci corre l’obbligo di precisare alcune delle inesattezze contenute e di sfatare diversi luoghi comuni, oltre che rispondere ad alcune illazioni delle quali l’articolista ne dovrà rispondere nelle sedi opportune. Innanzitutto è inesatta la divisione in “famiglie” degli idiomi parlati in Piemonte (il tedesco walser - lingua germanica - non ha nulla a che vedere con l’occitano - lingua romanza); probabili inconvenienti imputabili alla diffusa pratica del “copia-incolla”. Ma, soprattutto, si tace sul fatto che le quattro lingue autoctone del Piemonte (piemontese, francoprovenzale, occitano o provenzale e tedesco walser) sono vere e proprie “lingue”, riconosciute dall’UNESCO, dal Consiglio d’Europa, dai massimi studiosi delle università di tutto il mondo e – cosa più importante – dai propri parlanti, come notato dal compianto prof. Gianrenzo Clivio (Università di Toronto). Si intende piuttosto negare la dignità di lingua a questi idiomi perché non sarebbero “parlate unitarie”. Citiamo il prof. Sergio Maria Gilardino (Mc Gill University, Montréal): «...l’85% delle lingue del pianeta Terra, cioè circa 5.100, si trovano nelle stesse condizioni del piemontese: sono frammentate in molte parlate apofoniche (di suoni molto vicini, che però si modificano vieppiù nello spazio, a mano a mano che ci si allontana da un punto di partenza qualsiasi). Ma con una differenza fondamentale: solo il 3% di quelle lingue è stato codificato (registrato in dizionari, grammatiche e archivi sonori o audiovisivi), mentre il piemontese è una delle lingue più codificate e, fino ad Ottocento inoltrato, una lingua più documentata che non la futura lingua nazionale. In altre parole, esistono dei dialetti della lingua piemontese ed esiste una lingua piemontese. Quando re, governo, esercito, chiesa, nobiltà, borghesia, popolo parlavano piemontese, i dialetti (cioè la parlata del contado) erano facilmente identificabili. Oggi, quando solo più il contado parla residualmente il piemontese, rimangono solo i dialetti. Ma non per questo la lingua che fu di stato, di letterati, di tragediografi, di giornalisti, di poeti, è sparita. I dizionari, le grammatiche, i capolavori letterari, gli scrittori e i poeti che continuano ad usarla, sono pure sempre lì: basta volersene servire ed arricchirsi spiritualmente ed identitariamente». Solo nella seconda metà dell’Ottocento si hanno nella lingua piemontese più di tremila pièces teatrali. «Non siamo da meno con il romanzo: come numeri di titoli e di tirature (e di ristampe) la produzione in piemontese nella seconda metà dell’Ottocento non ha paralleli in lingua nazionale. Per pubblicare romanzi bisognava che la gente si riconoscesse in una lingua e la leggesse, perché a differenza di canzonette e poesiole, che si possono recitare a memoria, la presenza della prosa giornalistica e romanzesca presuppone sempre l’alfabetismo funzionale del grosso pubblico. L’unico pubblico in Italia che sapesse leggere e leggesse correntemente la propria lingua era quello piemontese (analfabetismo medio del 97,5% in Italia, alfabetismo medio del 47% a Torino e del 90% nelle valli protestanti a ovest di Torino). In quelle stesse valli furono tradotte le Sacre Scritture in lingua piemontese e lette in tale lingua prima che esse lo fossero in italiano. Sono dati statistici abissalmente diversi da quelli del resto del futuro Regno d’Italia, che fanno della lingua piemontese e del suo uso come lingua nazional-popolare un fatto unico. (...) La lingua piemontese è servita a 30.000 uomini, al loro re, ai loro ufficiali, a vincere a Magenta e a San Martino contro il più potente esercito della Terra in quel momento. 15.000 di quegli uomini rimasero sul campo di battaglia. Tutti gli ordini furono dati e ricevuti esclusivamente in piemontese (v. il capitolo apposito nel libro La battaglia di Magenta, ed. Zeisciu, 2009). (...) La lingua piemontese è stata usata per le riunioni di fabbrica alla FIAT fino all’inizio degli anni Sessanta: le più performanti macchine sportive (quelle pilotate da Vincenzo Lancia) e i più veloci aerei al mondo (record mondiale di Italo Balbo a bordo di un Savoia Marchetti) degli anni dell’anteguerra furono concepiti e costruiti in quella lingua». Altro che “balòss” e “fabiòch”... I dialetti monferrini fanno riferimento proprio a questa straordinaria lingua piemontese – la cui avversione è ricorrente da parte dell’articolista, su queste colonne; essi non rappresentano “isole” rispetto alle comunità circostanti, né nell’ambito del Piemonte quale la storia ce l’ha consegnato. La loro ricchezza è un valore per la piccola comunità quanto per la più grande. Nuovamente il prof. Gilardino: «I piemontesi vantano il primo e il più antico documento letterario tra tutte le lingue della Romània, i 22 Sermoni Subalpini (codice: Biblioteca Nazionale, D. VI. 10. 128r-188v). Sono di inestimabile valore non solo per i piemontesi, ma per tutto il mondo neolatino. Essi ci confermano che il piemontese ha mille anni di civiltà letteraria ed è il decano di tutte le lingue neolatine. La prima grammatica della lingua piemontese è uscita dai torchi delle stamperie reali nel 1783 a cura del medico e letterato di corte Maurizio Pipino (..) Se le principesse straniere si sentivano in dovere di imparare la lingua piemontese, ciò vuol dire che era lingua di corte (oltre che di popolo) e che tutti la parlavano, secondo canoni e modelli che Pipino esempla con dovizia di lettere e di bei versi. (...) La lingua piemontese possedeva (e possiede tutt’ora, per quelli che la studiano seriamente) una diastratia che di certo, a quell’epoca, la lingua italiana non poteva avere (non era lingua di Stato e le mancavano anche i nomi per gli attrezzi da lavoro, come eloquentemente dimostrato dal fallito tentativo di tradurre in italiano l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert)». Le regole di scrittura di una lingua (perché ogni lingua autonoma ha le proprie) non possono che valere anche per i suoi dialetti. Non esiste una lingua che si scriva “come si pronuncia”; questa è un’affermazione falsa e irriguardosa dei lettori: è una visione italocentrica che porterebbe a scrivere “feisbuuc”, “maicrosoft”, “bedenbrecfast”, “techeuei”. Se è vero che ogni lingua (e ogni dialetto) la si impara da bambini, è altrettanto vero che la si studia a scuola: la si approfondisce, si impara a scriverla, a parlarla sempre più correttamente, se ne sviluppano le possibilità espressive, se ne studia la storia e la creatività degli scrittori che l’hanno valorizzata e, inoltre, si raffina la coscienza e l’orgoglio per la parlata della propria gente. Tant’è vero che a livello comunitario esiste una “Convenzione Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie” (che in Italia si fa finta che non esista) che impegnerebbe gli Stati membri ad introdurre lo studio della lingua locale in tutti gli ordini di scuola, partendo proprio dalla variante locale, quella parlata in famiglia. E che in quasi tutta Europa questo avviene senza tante storie e polemiche: in Catalogna è possibile frequentare le lezioni universitarie sia in spagnolo che in catalano, i giornali escono in edizioni catalane e la televisione trasmette in questa lingua. Decàde così un’altra teoria, affermata in virtù di non si sa cosa: il piemontese - e le sue varianti - patiscono oggi l’esclusione dalla scuola e dai mezzi di comunicazione; affermare quindi che essi perdano locutori per un “inesorabile corso della storia” è semplicemente una sciocchezza. Se spariscono la colpa è di una precisa scelta politica, che mira a togliere loro la dignità affinché siano gli stessi parlanti a rinnegarle; ed è in questa direzione che si muovono le tesi dell’articolista, vale a dire svilire un popolo di tre milioni di persone che parla la lingua della propria storia, anche sotto forma di dialetti locali. Una lingua in tutto e per tutto autonoma dall’italiano: «Il piemontese, più che nessun’altra lingua regionale d’Italia, presenta delle innovazioni che lo staccano dal resto della compagine italiana e, nel contempo, lo saldano al blocco occidentale (francese, occitano, catalano, spagnolo, portoghese)» (prof. Helmut Lűdtke, Università di Kiel – fra le decine di attestazioni che si potrebbero citare). «È la Storia che fa una lingua. Una parlata che per secoli e secoli è servita ad un popolo per esprimere tutte le sue esigenze è lingua, con o senza approvazione statale, con o senza letteratura. È il sudore, la fatica, la fame, la miseria, la lotta per la sopravvivenza, la sete di giustizia, il dialogo con Creatore e Creato, la speranza nella disperazione, che fanno delle parole di una lingua le depositarie dell’esperienza planetaria di un popolo. Ogni parola di quella lingua è unica, senza campi semantici identici in nessun altro idioma. La lingua è la storia di un popolo nascosta all’interno di ogni sua parola. Privandolo della sua lingua lo si priva della sua storia. Un popolo senza storia è un popolo senza identità: si disperde come polvere al vento. Si ubriaca, si droga, si picchia, si uccide, si autoelimina. Cibo e lavoro, quando ci sono, non bastano. (...) Lingua è popolo, popolo è lingua: quando si interferisce dall’alto si crea la discriminazione dialetto-lingua, si crea il rapporto disprezzo-diffidenza, si nega la storia, si nega il diritto ai popoli di continuare ad essere sé stessi» (S.Gilardino). Ora, non sappiamo con quale autorità l’articolista possa prendersi la responsabilità di affermare che tutto ciò sarebbe “un’operazione senza senso, un imbroglio”. Gioventura Piemontèisa (e non solo) da diciassette anni realizza progetti regionali per restituire alla nostra gente il senso della dignità della propria lingua: e non ci sentiamo affatto degli “imbroglioni”. «Nessuna lingua viva è omogenea e immutabile: la vita è rinnovamento e adattamento costanti. Il piemontese è vario perché è vivo. Come vivo è il piemontese letterario che per secoli ha veicolato la creatività dei più grandi lirici di questa terra: diverse sono le parlate del Piemonte, ma mai tanto da non identificarsi nella koiné di chi, invece di dire che il piemontese non esiste, se lo è doverosamente studiato, così come ha studiato le principali lingue della civiltà letteraria europea, antica e moderna. Per poter poi affermare, alla fine di una lunga fatica, che il piemontese non solo esiste ma che, a conti fatti, è lingua tra le più splendide lingue letterarie d’Europa». Distinti saluti

Profili monferrini

Questa settimana su "Il Monferrato"

Michele Castagnone

Michele Castagnone
Cerca nell’archivio dei profili dal 1871!