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Abbazia di Sant'Albino, legata con Casale ai fatti del 1849. Davvero un posto da visitare, scrive Coaloa

Quante volte, facendo il tragitto che collega Milano e il Monferrato, la strada statale 494 Vigevanese (SS 494), sono passato accanto a quel vecchio rudere? Non lo so! Migliaia, forse. E qualcuno o qualcosa mi ha sempre sussurrato all’orecchio: «Fermati, troverai un tesoro!». E come sempre, in ritardo per mille lavori, non credendo ai fantasmi o avendone paura, sfrecciavo lungo la via. Non sto parlando di un sito ubicato nella Vecchia Vigevanese, la strada che certamente esisteva fin dal tardo medioevo, quando fungeva da collegamento tra la capitale del ducato di Milano e due tra i suoi castelli più importanti, Abbiategrasso e Vigevano. Racconto la storia gloriosa di quella che un tempo fu una delle abbazie più importanti d’Europa. Un luogo di evangelizzazione, caro a Santo Eusebio, vescovo di Vercelli. Uno spazio anche di sanguinosissime battaglie nel Medioevo. La sua storia si incrocia con quella del vicino Monferrato, quando a metà dell’Ottocento, diventa lo scenario del conflitto tra due eserciti impari nella lotta: quello di un piccolo Stato, guidato da un grande ma sfortunato Re, Carlo Alberto, contro l’Impero, sopravvissuto alle tempeste del 1848, di un giovane monarca destinato a un lungo regno, Francesco Giuseppe. Difficile credere che attorno a quelle antiche mura, a un campanile piegato dai secoli, possa ancora aleggiare il soffio di un glorioso passato, pronto a investire il fortunato flâneur che osi scendere un pendio fangoso, a poche decine di metri dalla trafficata strada statale. Il vecchio rudere è costituito da un cascinale e da una Chiesa. È ingentilito da un prato e da un muro di altissimi alberi, ma nascosto da un paesaggio avvilente, chiuso dall’asfalto di un montante che curva tra due ampie rotonde stradali, tra case abbandonate e supermercati aggrediti di continuo da una massa disumana, baccelloni, ultra corpi, ectoplasmi, numerosissimi soprattutto la domenica pomeriggio. Così, dopo il pranzo di un giorno festivo, stanco e abbattuto dal continuo ronzare di automobili cariche di desesperados (veri idioti perché fanno circolare quel poco denaro e finto benessere in un’epoca che non sarà certo ricordata come quella di un «miracolo economico»), ho finalmente deviato il percorso per quel luogo tante volte osservato, per cercare un attimo di tregua, accanto agli alberi e alla Chiesa decaduta. Da qualche anno, in verità, un improvviso restauro ha restituito alla facciata della Chiesa un aspetto meno deprimente, riportando una certa vetustà all’opera, riprendendo anche quello che un tempo era un chiostro… Il rudere è nei pressi di Mortara (Murtära, in dialetto lomellino), in provincia di Pavia. Ti avvicini e il miracolo inonda gli occhi di bellezza: si tratta dell'Abbazia di Sant'Albino, una chiesa-abbazia fondata nel V secolo, ricostruita dal monaco inglese, da cui prese il nome, Albin Alkwin (il cui nome latinizzato fu Flacco Albino), consigliere di Carlo Magno. Il frate intendeva rendere un perenne ricordo al luogo dove, il 12 ottobre 773, si affrontarono in una sanguinosissima battaglia i franchi di Carlo Magno e i longobardi di Desiderio. La storia dell'abbazia resta indissolubilmente legata alla battaglia combattuta nelle sue più immediate vicinanze nel 773 e si confonde con il mito delle gesta dei due paladini franchi e scudieri di Carlo Magno, Amico (Amis de Bayre), tesoriere reale, e Amelio (Amelie d'Auvergne), coppiere del re, deceduti proprio nel corso di quella battaglia. Famosi i versi di Ludovico Ariosto a proposito: «Quivi cader de’ Longobardi tanti, /e tanta fu quivi la strage loro, /che ‘l loco de la pugna gli abitanti /Mortara dapoi sempre nominoro.» (I cinque canti - canto II, 88). Il villaggio che era stato testimone della strage avrebbe mutato il bucolico nome di Silva Bella in quello un po’ lugubre di Mortis Ara (e quindi Mortara). A proposito dei leggendari Amico e Amelio si narra che, pur essendo stati inumati in due loculi separati, furono ritrovati nello stesso sepolcro. Fu lui che suggerì a Ildegarde, moglie dell’imperatore Carlo Magno, di racchiudere i corpi degli scudieri del marito in due distinti sarcofagi, forse di origine romana, nelle due diverse chiese che si ergevano nei pressi del campo di battaglia. Nell’Abbazia, il lato destro del catino absidale ospita affreschi raffiguranti Sant'Antonio abate, il Battesimo di Gesù, una Madonna in Trono con Santi e il Committente. Sono datati 1410, firmati da «Joannes de Mediolano», e perciò attribuiti a Giovanni da Milano (che visse però tra il 1325 e il 1370, da qui la nostra titubanza nell’attribuzione). Sotto a essi si trova un affresco anonimo raffigurante San Lorenzo. Gli affreschi, che versavano in pessime condizioni, sono stati restaurati quindici anni fa, grazie al contributo della Fondazione Banca del Monte. Sulle pareti si notano incisioni di pellegrini riguardanti il loro passaggio e la data più antica ancora leggibile risale al 1100. Nei pressi del portale, due medaglioni ricordano i mitici paladini franchi. Nel cortile del cascinale annesso alla chiesa (un tempo «ospitale» per i pellegrini che numerosi transitavano lungo la via Francigena) troviamo una finestra ogivale trecentesca decorata con formelle di cotto. In realtà, a spingermi una domenica pomeriggio a visitare l’Abbazia è stato un ricordo risorgimentale. Mortara e i suoi dintorni sono parte del Piemonte storico: nel 1707 Vittorio Amedeo II di Savoia conquistò il centro, elevandolo al rango di città regia (affrancata dunque dal feudalesimo) e di capoluogo della provincia di Lomellina. Questi importanti cambiamenti furono ratificati con il trattato di Utrecht nel 1713. La città mantenne questo ruolo fino al 1860, arricchendosi di palazzi e costruzioni ottocentesche quali il Palazzo comunale (1857) e il Teatro dedicato a Vittorio Emanuele II (1845). Proprio lungo l’attuale strada statale Vigevanese (tra l’Abbazia e il Cimitero), a metà dell’Ottocento, si scontrarono gli eserciti del Regno di Sardegna e quelli dell’Impero d’Austria nella battaglia di Mortara, uno dei principali combattimenti della Prima guerra d’indipendenza italiana. Nel 1848 c’era già stato lo scontro tra i due eserciti. Alla fine del 1848, l’Impero era guidato dal più giovane monarca d’Europa, Francesco Giuseppe, incoronato il 2 dicembre a Olmütz, dopo aver ricevuto il battesimo del fuoco proprio in quell’anno, tra il 5 e il 6 maggio (l’arciduca non aveva ancora compiuto diciotto anni, era un ussaro che aveva lasciato i banchi di scuola da due mesi appena, assegnato come ufficiale d’ordinanza al corpo del barone Konstantin d’Aspre). All’inizio di maggio l’esercito piemontese sferrò tre duri assalti alle postazioni austriache nel paese di Santa Lucia, nei pressi di Verona. La vittoria austriaca sollevò notevolmente il morale delle truppe di Radetzky e dei sudditi fedeli alla dinastia nel Regno Lombardo-Veneto. Santa Lucia non fu Austerlitz o Lipsia; non è ricordata come una delle battaglie più sanguinose della storia; gli austriaci ebbero meno di 350 perdite, fra morti, feriti e dispersi. Sul piano strategico, tuttavia, le postazioni di Santa Lucia erano importanti: se i piemontesi si fossero aperti un varco nelle difese, avrebbero messo in pericolo la fortezza di Verona, d’importanza basilare. Dopo la battaglia di Custoza (22-27 luglio 1848), la prima fase della guerra era terminata. Il 9 agosto 1848, Radetzky e il generale Salasco conclusero l'armistizio in cui fu stabilito che le truppe del Regno di Sardegna si sarebbero ritirate da tutto il Lombardo-Veneto. La vittoria di Radetzky fu accolta con molta emozione a Vienna, capitale di un impero ancora sconvolto dai moti rivoluzionari. Per l'occasione, il musicista Johann Strauss senior compose in onore del vincitore uno dei pezzi che diventerà il simbolo di Vienna nel mondo: la «Radetzky-Marsch», eseguita per la prima volta a Vienna il 31 agosto 1848. Il 14 marzo 1849, Re Carlo Alberto aveva improvvisamente criticato l’armistizio. Sei giorni dopo entrò nel Lombardo-Veneto. Il 20 marzo 1849 a mezzogiorno si riaprirono ufficialmente le ostilità. I piemontesi, eccetto che per una ricognizione oltre il Ticino verso Magenta, non si mossero. Radetzky invece, dalla testa di ponte di Pavia, entrò a sorpresa e in forze nel Regno di Sardegna. La zona dell'attacco era presidiata dalla divisione lombarda (5ª Divisione), il cui comandante Gerolamo Ramorino, il 16 marzo, aveva avuto l'ordine di portarsi avanti e mantenere una forte posizione a La Cava per sorvegliare l'ultimo tratto del Ticino alla confluenza con il Po. In caso di difficoltà la divisione avrebbe dovuto ritirarsi verso nord su Mortara attraverso Sannazzaro. Il generale Ramorino era invece convinto che gli austriaci intendessero conquistare Alessandria e che il passaggio del Ticino presso Pavia non era che una finta. Egli quindi non solo lasciò alla Cava una quota modesta delle sue truppe, ma ordinò loro che in caso di pericolo avrebbero dovuto dirigere a sud e passare il Po. Contrariamente a ciò che pensava Ramorino, gli austriaci, dalle 12 del 20 marzo passarono il Gravellone, affluente del Ticino fuori Pavia. Era la divisione dell'arciduca Alberto, che aprì la strada a tutto l'esercito austriaco. Presso la Cava, in assoluta superiorità numerica, le truppe di Radetzky sconfissero sui piemontesi che tuttavia, grazie anche alla tenacia del maggiore Luciano Manara, resistettero per sei ore. Contravvenendo agli ordini ricevuti, Ramorino fece ritirare tutte le sue truppe sulla sponda destra del Po e non ripiegò verso nord, isolando così la sua divisione. Per questa mancanza, che portò a un notevole indebolimento della posizione dell'esercito piemontese, dopo la sconfitta, Ramorino fu giudicato colpevole dalla corte marziale di Torino e fucilato il 22 maggio 1849. Mortara, nelle prime ore della notte del 21 marzo 1849, fu attaccata dagli austriaci. La battaglia sembrò concludersi con la vittoria da parte dell'esercito del Regno di Sardegna guidato da Re Carlo Alberto di Savoia e dal generale polacco Wojciech Chrzanowski contro le forze austriache comandate dai generali Josef Radetzky, Konstantin d'Aspre e dall'arciduca Alberto. In realtà la battaglia di Mortara non fu una vera vittoria. La sera del 21 marzo le forze del Regno di Sardegna prevalsero per un errore tattico commesso da Radetzky, il quale, anziché ripiegare su Novara ove vi si concentravano le forze piemontesi, decise di attaccare inutilmente la città di Vercelli, considerata da lui «quartier generale» dell'Armata piemontese. Tramite quest'errore, il generale Chrzanowski ne approfittò per contrattaccare e controllare, il 22 marzo, buona parte di uno schieramento militare austriaco. Anche se persa la battaglia, Radetzky ebbe l'occasione di rifarsi il 23 marzo in occasione della battaglia di Novara, dove vi fu la totale sconfitta piemontese. La sera stessa della disfatta, il Re piemontese abdicò. Alla corte asburgica, l’ottuagenario Radetzky diventò, ancora una volta, l’eroe dell’Impero. LA BATTAGLIA DI MORTARA E L’ASSEDIO DI CASALE DEL 1849. Nel marzo del 1849 Carlo Alberto decise di riprendere la guerra contro l'Austria: tra il 12 e 20 marzo il Re lasciò la fortezza di Alessandria (strategica per la sua cittadella) e intraprese un giro d'ispezione alle truppe mobilitate e accantonate in Lomellina e nel basso Novarese. La sera del 18 giunse a Mortara e prese stanza nel Palazzo Lateranense, ora sede delle scuole medie. L'indomani partecipò a una grande parata militare nei pressi di Remondò, dove consegnò ai reggimenti della divisione Bes (Seconda Divisione) le bandiere di guerra, benedette dal Vescovo di Vigevano, Pio Vincenzo Forzani, dopo la celebrazione di una Santa Messa al campo. Lo Stato Maggiore difettava di collegamenti e non tutti i comandanti conoscevano il teatro degli scontri. Le truppe al comando del generale Chrzanowski furono schierate nei dintorni di Mortara. A mezzogiorno del 20 marzo 1849, la 4ª Divisione del duca di Genova stava attraversando il Ticino, fra Trecate e Boffalora, con il Re alla testa della colonna dei bersaglieri. Le truppe giunsero fino a Magenta senza incontrare gli austriaci, i quali, fu ipotizzato, che o avessero indietreggiato fin dietro l'Adda, oppure che avrebbero attraversato il Ticino nei pressi di Pavia (dove avrebbero trovato il generale Ramorino con la sua Quinta Divisione di volontari), invadendo così il Piemonte e irrompendo in maniera fulminea fino a Torino. Il piano degli austriaci avvenne in maniera fulminea, andando a sorprendere i piemontesi proprio da Pavia. Tale manovra fu prevista da Chrzanowski, che la contrastò, ma non in modo efficace. Ramorino spostò i suoi uomini al di là del Po, verso sud, in direzione Piacenza e rimanendo così fuori zona. Radetzky ordinò il passaggio nei pressi del Gravellone, con tre colonne comandate dal generale Konstantin d'Aspre. Gli austriaci non riscontrarono una forte resistenza, poiché Ramorino capitanava duecento uomini alla Cava e il Battaglione Bersaglieri di Manara sul Gravellone, gli unici militanti che si opposero in numero insufficiente al nemico e che per questo furono costretti al ripiegamento. Ramorino tornò a Novara per comunicare il resoconto del suo comportamento e il comando della Quinta Divisione passò al generale Manfredo Fanti; Ramorino si scusò per aver disobbedito, credendo che la sua manovra avrebbe contrastato il nemico con una tattica di accerchiamento. Fu arrestato e portato a Torino. La sera stessa del 20 marzo, dando per scontato che il nemico da Pavia era ormai entrato in territorio piemontese, Chrzanowski ordinò alla divisione Durando di spostarsi da Vespolate a Mortara, alla Seconda Divisione Bes di spostarsi da Cerano e Cassolnuovo fino alla Sforzesca, collocandosi direttamente a San Siro. La mattina del 21 marzo, il generale polacco ordinò alla riserva del duca di Savoia di raggiungere il generale Giovanni Durando; subito dopo, insieme alle Divisioni di Ettore Perrone e del duca di Genova, partì per Vigevano. Radetzky, intanto, puntò su Mortara con il 2º ed il 3º corpo (quest'ultimo protetto dal 1° che si spostò da Zerbolò a Gambolò) e dal 4° che dalla Cava marciò su San Giorgio di Lomellina. L'avanguardia del 1º Corpo del generale Eugen Wratislaw von Mitrowitz, comandata dal colonnello Schanz, giunta a San Siro incontrò gli avamposti della Seconda Divisione del generale Bes, che furono assaliti. Anche se poco numerosi, i piemontesi si difesero bene, ma dovettero subito ripiegare sulla Sforzesca. Anche questa località fu attaccata dagli austriaci, i quali furono respinti alla baionetta dal 17º Reggimento di fanteria, capeggiato dal colonnello Filiberto Mollard e dal 23° del colonnello Enrico Cialdini, comandato in sua assenza dal maggiore Fontana, che nell'azione perse il cavallo. Due squadroni del Piemonte Reale, nonostante le asperità del terreno ricoperto di vigneti e attraversato da tanti fossi, eseguirono due grandi cariche, che respinsero il nemico, il quale lasciava nelle loro mani numerosi prigionieri. Verso le quattro pomeridiane del 21 marzo, gli austriaci attaccarono nuovamente Gambolò, con le Brigate Strassoldo e Wohlgemath; ma l'assalto fu meno fortunato del precedente. Si distinse nella difesa il primo Reggimento Savoia. Chrzanowski aveva mandato a Mortara il generale Alessandro La Marmora, al fine di rispettare gli ordini emanati per lo schieramento; malgrado ciò, l'esecuzione della manovra non funzionò. Il generale Durando, infatti, recatosi tra Garlasco e San Giorgio di Lomellina, spiegò la sua Divisione dal convento di Sant'Albino al cimitero, mettendo a sinistra la Brigata Aosta, la cavalleria ed alcune riserve e a destra la Brigata Regina, comandata dal generale Tratti, capo di un battaglione nel convento. Il Duca Vittorio Emanuele di Savoia invece, arrivato a Castel d'Agogna, spiegò la sua Divisione a sinistra fin quasi dietro la destra di Durando; ma tra le due divisioni, a causa del terreno difficile e poco conosciuto, mancò il collegamento e tutto il peso della battaglia gravò sulla sola Brigata Regina della Divisione di Durando, che non fu sostenuta da nessun altro. Il generale Konstantin d'Aspre avviò l'attacco alle cinque, con l’appoggio di ventiquattro cannoni, al quale seguì l'azione delle fanterie che si gettarono sulla destra della divisione sarda, la Brigata Regina. Le truppe sabaude, composte in gran parte di reclute di volontari, che a stento si erano mantenute ferme sotto il bombardamento, non riuscirono a sostenere l'urto e ripiegarono in disordine verso Mortara, inseguite dagli austriaci, tre battaglioni dei quali riuscirono a occupare l'entrata di Garlasco. Vittorio Emanuele di Savoia tentò di rimediare, ordinando a due battaglioni della Brigata Cuneo di accorrere a San Giorgio, ma quando giunse la notte, i militari andarono in totale confusione. Era impossibile riprendere il controllo della situazione, anche se vi fossero state forze maggiori a disposizione. Fu altrettanto inutile il tentativo di La Marmora, che, riordinato un Battaglione della Regina in ritirata, lo aveva ricondotto ordinatamente al fuoco. Le truppe di Sant'Albino, anche dopo le disfatte della Regina, continuarono a sostenere il combattimento, ma sopraffatti dai soldati del generale Kolovrat, lasciarono il convento e con i due Battaglioni della Cuneo si ritirarono verso Mortara. Qui, però, era già entrato il colonnello Ludwig von Benedek con il Battaglione Gyulai, che combatteva già per le vie cittadine contro i piemontesi. Tuttavia all'arrivo dei Battaglioni della Cuneo e del Battaglione della Regina, comandato dal La Marmora, Benedek si trovò in gravissima inferiorità numerica, però intimò la resa ai piemontesi, che in parte cascarono nel tranello. Furono arrestati i colonnelli Delfino e Abrate. Durante tutta la giornata, oltre alle importanti posizioni, i piemontesi persero cinquecento uomini in combattimento e altri duemila furono fatti prigionieri. Gli austriaci in totale, tra morti e feriti persero circa cinquecento uomini. L'accanimento messo dai piemontesi nella difesa, fu comunque provato dai feriti, durante lo scontro. Il comandante del 17º Reggimento di fanteria, infatti, ricevette un colpo di baionetta, mentre il vecchio generale Bussetti comandante della Brigata Cuneo fu ferito da un colpo di sciabola e un colpo di lancia. Durante la notte, il resto della Brigata Regina, l'artiglieria, i Granatieri della Guardia, con i Cacciatori e i Reggimenti Savoia e Nizza Cavalleria, completarono il ripiegamento a Novara, dove la mattina del 22 giunsero anche la Brigata Aosta, il resto della Cuneo, i quattro squadroni del Novara Cavalleria e l'artiglieria di riserva. Re Carlo Alberto ricevette la comunicazione della rotta di Mortara alle due di notte del 22 marzo. Il messo incaricato lo trovò disteso in un fosso, avvolto nel suo mantello, con il capo appoggiato sullo zaino di un granatiere. Alla notizia non parve turbato e non si scoraggiò. Si alzò ed espresse il desiderio di ritentare la sorte delle armi con una battaglia decisiva. Vi erano due possibilità, marciare su Mortara e riprenderla al nemico con l’audacia, o concentrare le forze intorno a Novara aspettando lo scontro con Radetzky. Chrzanowski scelse la seconda possibilità, impartendo alle truppe l’ordine di spostarsi su Novara. Di fatto, la ritirata verso Novara di Chrzanowski, provocò la separazione dell’Armata sarda da Alessandria, uno dei principali siti militari piemontesi, che del resto, però, venne già in pratica separato dalla manovra di sfilamento su Mortara operato dagli stessi austriaci. Radetzky, però, in attesa tra Novara e la sua colonna avanzante oltre Mortara, ritenendo in un primo momento insensata la ritirata dei Sardi su Novara, attaccò in massa con le sue stesse forze la città di Vercelli, credendo di trovare l'Armata piemontese e delegando al secondo Corpo d'Armata del barone d’Aspre e al Corpo d’Armata del giovane arciduca Alberto, l’occupazione “secondaria” di Novara. Tutte queste operazioni diedero a Chrzanowski la straordinaria opportunità, il 22 marzo, di contrattaccare una parte delle forze dell’Impero con il vantaggio del numero. D’Aspre e l'arciduca Alberto furono, di fatto, respinti e l’attacco austriaco fu sventato. Visto quanto successo, Radetzky, comprese l'errore tattico e riconsiderò la presenza dell’esercito piemontese a Novara, prevedendo di attaccare con la totalità delle forze a disposizione quella località il giorno successivo. Sappiamo come andò a finire a Novara. Gli austriaci, qualche giorno dopo, però, ebbero la sorpresa a Casale Monferrato. Lì, infatti, furono attaccati dai casalesi, ai quali non era giunta la notizia della disfatta del Re. Gli austriaci assediarono Casale, bombardandola, il 23, 24 e 25 marzo 1849. La città si difese eroicamente contro le truppe austriache del generale Franz Emil Lorenz Heeremann von Wimpffen. Il 23 marzo, gli austriaci furono accolti a Casale da cannonate, sparate dalla guarnigione cittadina, costituita dalla Guardia Nazionale, guidata da vecchi soldati del periodo napoleonico. Addirittura gli austriaci furono respinti e si ritirarono, pensando, per qualche tempo ancora, che parte dell’esercito sabaudo, il «quartier generale», fosse ancora nascosto all’interno della vecchia fortezza monferrina. Ho rammentato questo episodio dell’assedio di Casale, in diversi saggi storici, con molti interessanti particolari (il ruolo di Filippo Mellana, ad esempio), radunati in svariati archivi storici, ricordando sempre il mio Maestro Giorgio Rumi, al quale s’illuminavano gli occhi rievocando quel passato. A Mortara, cento anni dopo la battaglia, fu posta una lapide su un muro esterno dell’Abbazia di Sant’Albino. Ora si legge a malapena, consumata dal tempo, questa scritta: «Tornano qui tra nimbi di gloria nel I centenario / i difensori di S. Albino / che simboli fulgidi della battaglia di Mortara / la sera del 21 marzo 1849 / sognarono l’Italia / e agli ordini dell’eroico colonnello Delfino / tennero. Più volte perdettero e più volte ritolsero alle fanterie austriache del generale D’Aspre / l’eremo che canta leggende di santi e gesta di paladini / d’Amico e d’Amelio di Carlo e d’Orlando». Quante cose vorrei ancora raccontare su quel folle 1849! Recentemente, sfogliando ingiallite carte, minute di lettere, presso l’Archivio di Stato di Torino («Regia Segreteria di Guerra e Marina – Pratiche confidenziali») ho scovato una nuova storia di quel conflitto, che forse, un giorno, grazie a un bel volume, celebrerà, in un corretto omaggio, gli episodi intercorsi tra Mortara e Casale nel marzo 1849. Roberto Coaloa

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