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FOTOGRAFIA / Quella New York metafisica nei “neri chiusi” di Croppi

La New York che traspare dalle immagini di Gabriele Croppi, fotografo milanese che ha presentato sabato pomeriggio alla Libreria Labirinto a Casale Monferrato il suo ultimo libro fotografico (sulla Grande Mela, ovviamente) appare come un’altra città, anzi quasi come un’altra dimensione, che sta sotto i nostri occhi ogni giorno (e non solo a N.Y. ma ovunque nel mondo) ma che sfugge al nostro sguardo, distratto dalla lusinga di una quotidianità più immediata che travolge l’attenzione. E quella di Croppi è infatti una metropoli colta nell’immobilità dell’attimo; attimo che tuttavia non fissa (come sa fare un grande fotografo) un fatto, una notizia, un istante carico di un significati (per così dire “storico”) della vita reale di quella città - New York - che comunque è fra le più concrete e oniriche, prosaiche e poetiche del mondo. Croppi è in cerca d’altro. E della sua metropoli emerge infatti il lato intimo, spirituale, immobilizzata una fissità che anche narrazione, storia e metastoria, simbolismo e profondo realismo. E giustamente lo stesso Croppi (che ha definito New York il suo lavoro più meditato, sedimentato e riuscito ) ha parlato sabato di “fotografia metafisica”, alludendo in primo luogo a De Chirico. In effetti il parallelismo con la pittura sorge spontaneo; è immediato il legame con l’arte visiva per eccellenza, capace di aprire un occhio nuovo sul mondo, squarci di conoscenza imprevesti su ciò che credevamo già trito. Ma proprio per quella capacità di creare un senso di sospensione la fotografia di Croppi non può non far pensare anche - per esempio - alla poesia di Montale. Un libro meditato frutto di uno stile e di una tecnica costruita nel tempo, di un percorso di crescita che ovviamente - ha tenuto a precisare Croppi - ha le proprie radici. Tra i suoi “padri” artistici il fotografo milanese ha voluto ricordare il grande Mario Giacomelli (tipografo, fotografo, poeta e pittore italiano originario Senigallia e scomparso 2000), soprattutto per l’uso di quelli che Croppi ha definito come “neri chiusi” che sono una importante cifra stilistica della sua fotografia, rigorosamente in bianco e nero. Neri densi, profondi, che dalle osservazioni del pubblico sono stati acutamente definiti “pause”. Neri assoluti, suadenti che rappresentano - appunto - un silenzio visivo (e narrativo) che Croppi utilizza per “illuminare” con particolare efficacia i soggetti e i particolari che sceglie per costruire più liberamente la sua “composizione”, la sua narrazione. Una fotografia che resta tuttavia ancorata al realismo e che sapientemente usa la post-produzione (i processi di trattamento delle immagini che un tempo si facevano in camera oscura, oggi al pc) non per cercare il facile effetto (ormai banalizzato dai filtri presenti in tutte le applicazioni) ma per costruire uno stile e un messaggio. Una fotografia che è anche ancorata al classicismo e che in questo classicismo trova nella presenza e nella figura umana il proprio fulcro. Anche la presenza umana è infatti studiata (Croppi ha parlato esplicitamente di «personaggi, anzi... di attori!») e serve a trasformare questi spicchi di realtà urbana in paesaggi dell’esistenza e dell’anima. Uomo che è - al tempo stesso - sé e solo sé, individuo, ma anche metafora di “tutti gli uomini” immerso una moderna classicità che è allusiva alla contemporaneità e al sempre, a un «tempo senza tempo» che è - forse - il più incombente “personaggio-attore” di questa interessante fotografia meditativa.

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Enea Morotti

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