Giorgina Petricevich, 85 anni, medaglia d’oro 1973 al “Premio Bontà di Don Giuseppe Palena”, è una tra le cento donne significative vissute a Casale e ricordate in un libro di Mario Verda, ormai introvabile. Davvero ha combattuto come il santo di cui porta il nome contro il drago della guerra e della povertà prima e combatte contro quello, non meno temibile, dell’indifferenza oggi.
Esule poco più che bambina dalla Dalmazia, trovò un primo rifugio nella nostra città alla Caserma Baronino. Senza mai giudicare nessuno, ma animata da un’innata fierezza ed educata all’umile diligenza del cucire con garbo ed abilità, lei con la mamma si vide aprire le porte delle famiglie più benestanti della città, dove allora era in uso ritoccare, rimodernare, stringere o allargare abiti. Le due donne passavano giornate intere alla macchina da cucire, spesso nelle case stesse delle clienti, rendendo gradita la loro discreta presenza con una conversazione, nella quale affiorava sempre la profonda umanità e conoscenza degli aspetti anche i più segreti e sconcertanti della vita. Questo era il frutto di uno sguardo attento a valutare, a giudicare la pluralità del vissuto umano, a riconoscere il carattere simbolico della realtà, così come emerge dagli autori della letteratura russa dell’Ottocento, che le due donne leggevano ogni sera a letto, per ricrearsi dalle fatiche della giornata. Nell’infinita modestia della loro condizione sapevano fare quello che oggi solo pochi, anche tra i nostri intellettuali, sanno fare: re-legere, cioè rileggere i fatti quotidiani, spingendo lo sguardo in profondità e re-ligare, cioè scoprire il legame tra quei fatti e il mistero che sta all’origine della vita.
Così si spiega la coraggiosa comparsa di Giorgina davanti al sindaco avvocato Tartara per perorare la causa di un vecchio mendicante, colpito da amnesia, che viveva quell’inverno sotto il ponte del Po e tossiva penosamente. Il sindaco guardò commosso le ciabattine ai piedi della ragazzina con le trecce, aprì il portafogli e fece correre un’ambulanza. Con quei soldi Giorgina portò ogni giorno la biancheria pulita e stirata al suo protetto in ospedale, muovendo le corde più nascoste anche nel cuore dell’allora primario dell’Ospedale Santo Spirito, dottor Muggia, ebreo di origine, che si trovò di lì a poco costretto a stanarla da dietro una colonna, dove Giorgina si era nascosta vedendolo arrivare con la sua corte di medici e a sgridarla in tono burbero, ma bonario, per avergli “regalato” la presa in cura di parecchie prostitute, una dietro l’altra.
Oggi Giorgina ricorda a chi va a trovarla le parole della poesia che lo scrittore Jean Servato le ha dedicato: “Povero è solo chi nulla ha dato”. Schiva di ogni riconoscimento della sua generosità, afferma di essere solo uno strumento nelle mani di chi sa più di lei e di dovere quel poco che è ai suoi ottimi maestri e qui elenca un gran numero di nomi di persone “in vista” e di persone comuni, che non si possono nominare senza fare torto ad altri.
Nei suoi giovani anni l’amore bussò alla sua porta, accompagnato perfino da seduzioni di ricchezza. Venne, attratto forse dal senso di calma, di ordine, di modesto accontentarsi, che emanava da lei e dalla sua casa, sorpreso forse dalla ricchezza che quella povertà racchiudeva, dalla felicità che quel “carcere” non poteva reprimere. Purtroppo come Margherita nel Faust di Goethe dovette rinunciarvi – e con quanto dolore! - avvertendo dietro all’amato l’inquietante presenza di una delle tante forme in cui si confonde Mefistofele. Ma così come per Margherita non si è trattato di un addio o di un abbandono, bensì di un ammonimento all’amato e come di una promessa di un amore più grande.
Non c’è stato bimbo, nato tra i suoi vicini, che non abbia ricevuto in dono da Giorgina una culla, splendidamente adorna e resa accogliente con poveri ritagli di stoffa, ma con un gusto e una creatività eccezionali. E come non ricordare i costumi confezionati per i balletti del Teatro Municipale e la passione con cui Giorgina riparava e rivestiva vecchie bambole, dimenticate da qualche cliente in fondo ad un armadio e restituite alla dignità di principesse da esporre su un letto o un divano civettuolo.
Ora che gli occhi non le consentono più di cucire fa spesso memoria del suo passato con le persone che le sono vicine, perché lei sa che la vita acquista senso quando c’è il racconto della vita. Sembra avere imparato a quella che lei chiama “l’università della vita” che la narrazione è più importante della vita stessa, perché la vita è il contingente, mentre la narrazione è l’eterno. Quando mi dice: «Non sembra anche a te che una parola a volte possa salvare dal suicidio una persona?» penso a Giorgina come ad un angelo in bicicletta, come a qualcosa di incredibile, oggi che la parola è un “luogo” per camaleonti, in cui ci si mimetizza e che viene usata non per fare chiarezza, ma per confondere e che ci allontana dalla nostra storia vera di donne e di uomini.
Tuttavia ciò che più sorprende in Giorgina è il suo modo di vivere la malattia e la vecchiaia con umorismo ed autoironia. L’esperienza precoce del sanatorio l’ha messa ancora bambina di fronte al dramma della morte. In quel corridoio passava chi non ce l’aveva fatta e allora lei fuggiva da quel luogo e al capezzale dei malati si impegnava ad imparare, lei slava, la lingua italiana ed i dialetti piemontesi in particolare e ad imitare con assoluta precisione i suoni e le inflessioni di quelle parlate per poi sorprendere e divertire i malati con le sue osservazioni e con i proverbi che aveva assimilato, cogliendo con prontezza il contesto più idoneo per farne uso. «Sono un po’ vivace» si scusa anche oggi «ma non posso farci niente» e a chi le ricorda la sua età nonostante l’aspetto di ragazzina risponde: «Non posso ancora andarmene, perché il funerale costa troppo caro. E poi, … se non si ride un po’...». E qui, come a scusarsi degli studi presto interrotti a causa della guerra e mai ripresi a causa della povertà, cita di nuovo quella “università della vita”, che le ha insegnato che far festa significa sperimentare il mondo non così com’è, ma così come potrebbe essere.