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Bosso infiamma il Municipale: il coraggio della vita in musica e parole

Ha davvero entusiasmato il pubblico il concerto di Ezio Bosso, sabato sera, al Teatro Municipale di Casale Monferrato. E indubbiamente la serata è stata unica, fuori da qualunque cliché, prima di tutto per la personalità di Ezio Bosso che ha instaurato un rapporto immediato, sincero e spontaneo con il pubblico. Bosso, con un curriculum importantissimo alle spalle, è riuscito a sconfiggere una grave malattia e ha fatto un duro percorso di riabilitazione che gli ha consentito di tornare a a suonare e comporre. Arriva in carrozzina e già dal modo di salutare cattura un pubblico eteregeneo, che ha riempito il teatro di gente e di attese. E si capisce subito che il concerto sarà una serata quasi “salottiera” (in senso buono non snob), di amici che si ritrovano per condividere una passione, una serata, un pezzettino di vita. Questo è ciò che vuole e che fa Ezio Bosso che non limita a suonare ma chiacchiera e scherza, anche se parlare gli costa fatica. Intelligente, autoironico, riflessivo, Bosso racconta di se stesso e fa considerazioni sulla esistenza trasmettendo - parola dopo parola e brano dopo brano - la positività di chi sa quanto bella sia la vita e come ci possa essere qualcosa di positivo quasi in ogni cosa; basta fermarsi e pensare, scavare in se stessi, e trarne un insegnamento, un nutrimento, per l’anima o per una migliore comprensione del mondo. Il coraggio della vita, della gioia e del dolore. Bosso apre il concerto con un brano ispirato al volo di un uccellino (Following a bird) e quella che emerge immediatamente è una musica intimistica, un minimalismo che ricorda Philip Glass, musica di facile ascolto che vuole parlare a tutti perché - dice Bosso - «io ho la fortuna di mettere le mani nella musica ma la musica è di tutti. Quelli che dicono “la mia musica” mi fanno paura... per carità, se è la loro io non la tocco...». E poi e intitolato Split (dividersi), lavoro sui cartelli stradali commissionato dal governo inglese (Bosso vive a Londra) ispirato dal segnale delle due strade che si separano; l’omaggio a Chopin e a Bach, quest’ultimo «detto da noi musicisti “il vecchiaccio” perché ci sorveglia tutti. Ogni giorno inizio studiando Bach... ma poi mi faccio anche un po’ gli affari miei...», scherza Bosso prima di rivisitare a modo suo preludi e invenzioni. E ancora The waiting room, che è «la stanza dell’attesa, la sala d’attesa, in cui aspettiamo una risposta... Attesa vuol dire tendere, cercare di andare là; si attende che si apra la porta. Quando ciò avviene c’è un orizzonte nuovo, perché l’attesa ha cambiato qualcosa». E via con la «Stanza della poesia dedicata a Emily Dickinson che «si è chiusa in una stanza e non ne è mai più uscita e ha vissuto immaginando il mondo, la natura, dio, l’amore... e chiamava le sue poesie le mie piccole stanze». Bosso si scusa per non avere grande fantasia nel titolare i brani e affronta Emily’s room: bitter and sweet (amaro e dolce), ricordando un verso della poetessa che recita «la dolcezza delle tue labbra, dei tuoi baci e l’amarezza delle tue parole...». E ci si avvia al gran finale: «Ho una stanza che da un po’ di tempo frequento e che mi sta proprio antipatica. «È buia e anche le persone che mi amano fanno fatica ad entrare, fanno fatica perché è intrisa di dolore. Pensavo di vederla una volta invece ci sono stato più spesso di quanto avrei voluto... «A volte può essere l’ospedale a volte può essere la mia stanza, ma l’abbiamo esplorata tutti...». Poi Bosso parla della teoria della dodicesima stanza: «La nostra vita si compone di dodici stanze che noi incontreremo, in cui lasceremo qualcosa e che ci lasceranno qualcosa. Non hanno una sequenza precisa ma si incontrano via via nel corso dell’esistenza. C’è una stanza che non possiamo vedere, la prima, quella in cui nasciamo, ma nell’ultima, la dodicesima, dice la leggenda, ricorderai la prima e quindi sarai pronto per ricominciare». La dodicesima stanza, l’ultimo brano, è un imponente momento di introspezione e di sperimentazione sonora, con le corde del pianoforte pizzicate come fosse un basso (Bosso ha suonato anche questo strumento) o percosse dando vita a sonorità più asciutte e secche, ritmiche, che si scostano totalmente dal limpido nitore del martelletto che anima acciaio e tavole di risonanza. Al termine il pubblico gli tributa una vera e propria ovazione, qualcuno commenta: «Adesso come si fa a tornare sulla terra?», altri ascoltatori - più sofisticati - se ne vanno senza troppo entusiasmo. Ma certo avviandosi all’uscita tutti si sentono toccati, se non dal musicista e dall’uomo, almeno dall’uno o dall’altro...

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Enea Morotti

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