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Zoofavola Nel finale è evidente l’intento saritico verso il regime
Ovvero, il pipistrello e il mulo... antifascista
Da “L’Esopo Monferrino” Zoofavole dialettali raccolte e scongelate, tradotte e commentate a cura di Pietro Giordano Odalengi (5)
I’era ‘na vota ‘na rata vuloirache,
lungh dal dì, la drumiva sla sleria.
E dop, la lì la surtiva la seria,
quand ch’l’era l’ura d’marenda-sinoira.
Ma, quand ch’la pasava,
in mül al ridiva e ‘i ciamava:«T’sa dimi l’ perchét’han fati mesa rata e mes usé?».
La rata: «T’è ti ch’a m’am devi spiegàperché t’han facc mes asu e mes cavà».
Ancura ‘l mül: «Que dì dal me padron,
ch’l’han falu mes fasista e tut cojòn?».
La traduzione
C’era una volta un pipistrello che, duran-te il giorno, dormiva in soffitta. Ne usciva all’imbrunire, quand’era giunta l’ora della merenda-cena. Ma, ogni volta che usciva, là c’era un mulo che lo guardava e si metteva a ridere, do-mandandogli: «Mi sai dire perché ti hanno fatto mezzo topo e mezzo uccello?”.Gli rispondeva il pipistrello: «Anche tu mi devi spiegare come mai ti hanno fatto mezzo asino e mezzo cavallo». Conclu-deva il mulo: «E che dire allora del mio padrone, che lo hanno fatto mezzo fasci-sta e tutto coglione?”.
Il commento
Pur non potendo pretendere di stabilire delle connessioni difficilmente dimostra-bili, non posso qui fare a meno di azzarda-re una certa analogia con la celeberrima “Rata vouloira” di Cesare Vincobrio, resa ancor più celebre dalla magistrale inter-pretazione che ce ne offre Giorgio Milani. Entrambi i componimenti mi sembrano caratterizzati da un evidente intento sa-tirico contro il Fascismo.Brutale ed epigrammatica è la stocca-ta finale della zoofavola, ma non meno micidiale è la parodia che il Vincobrio fa del militarismo combattentistico, della glorificazione della lotta, nonché degli slogan epico-mistici allora in voga: «A noi!» e «Alalà!». Questo grido dannunzia-no inteso come la variante mediterranea dal nordico «Hurrah!».E poi l’uso del verso di dieci sillabe, l’uni-co verso veramente marziale della metrica italiana, usato nell’Ottocento da Alessan-dro Manzoni (“Marzo 1821” e “La batta-glia di Maclodio”) e da Giovanni Barchet (“Il Giuramento di Pontida”). Un verso che viene naturale scandire con un tripli-ce rullo di tamburo guerresco: «Rataplàn, rataplàn, rataplàn!».Come mai i gerarchi di quel partito fu-rono tolleranti, e magari anche divertiti dall’opera del Vincobrio, mentre avreb-bero accolto come un insulto sanguinoso la zoofavola? Ma perché l’ironia della prima, pur es-sendo caricaturale, è pervasa da una cor-diale bonomia. Ho solo voluto azzardare un confronto. Per una eventuale attribuzione, non ho nemmeno uno stralcio di prova.
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