Infernot: architettura e storia scavate in pietra da cantoni
di Luigi Angelino e Dionigi Roggero
Infernot è “Etimologicamente riallacciabile al provenzale antico enfernet, che designa una prigione angusta, e agli inizi applicato, come pare ovvio, ad un vano ristretto, sotterraneo, dipendenza di una cantina principale, il vocabolo infernotto, con oscillazione semantica, giungerà anche a designare il locale maggiore: descrivendo nel 1679 la maestosa e architettonicamente pregevole cantina della Venaria Reale...”.
Anche se l’agronomo Antonio Donadio di Busca negli ultimi decenni del Settecento sosteneva che “sarebbe ottimo ripiego” avere “due cantine, cioè, come dicesi dal volgo, una crotta ed un infernotto, che vale a dire una cantina sotto il piano terreno e l’altra al di sotto di quella”, nella quale i vini andrebbero trasferiti nel mese di febbraio oppure marzo essendo essa “maggiormente riparata dagli ardori del sole e fredda eziandio in tempo d’estate”. Così si legge nel primo volume intitolato “Infernot.
Forme ed espressioni scavate nella Pietra da Cantoni”, a cura di Ilenio Celoria e Paolo Ceresa, pubblicato nel 2004 dall’Istituto Leardi di Casale e dall’Ecomuseo della Pietra da Cantoni di Cella Monte. L’opera, cui si è aggiunto un secondo volume nel 2008, è frutto di uno studio accurato di una cinquantina di infernot, di cui i giovani studenti guidati dagli insegnanti hanno restituito il rilievo architettonico, la schedatura fotografica, la mappa di localizzazione e una breve descrizione. Questi nostri tesori sono ora di rilevanza internazionale.
Infatti da domenica 22 giugno 2014 i paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato sono diventati ufficialmente Patrimonio dell’Umanità per decisione della 38ª sessione del Comitato riunitasi a Doha in Qatar. L’Italia, che già contava il maggior numero di siti, ha così raggiunto quota 50. Questo nuovo sito Unesco è il primo interamente dedicato alla cultura vitivinicola. Un meritato riconoscimento alla radicata cultura del vino e allo straordinario paesaggio modellato dal lavoro dell’uomo, in funzione della coltivazione della vite e della produzione del vino, nella parte meridionale del Piemonte tra il Po e l’Appennino ligure.
L’Unesco ha riconosciuto al Monferrato la presenza (indispensabile per l’assegnazione del riconoscimento) di un “Eccezionale Valore Universale” agli infernot. Questi singolari manufatti architettonici scavati nella Pietra da Cantoni (presente solo nel Basso Monferrato) e utilizzati per la conservazione delle bottiglie, sono vere e proprie opere d’arte legate al “saper fare” popolare.
Un piccolo tour (con i soffitti dipinti)
Appuntamento a Cella Monte, con parcheggio nel cortile della sede dell’Ecomuseo (ricordi di concerti nella vicina chiesa con sindaco Fiorella Coppo...). Ci aspetta il presidente dell’Ecomuseo pietra da Cantoni Claudio Castelli, con Enrica Pugno e Chiara Natta. Merita la visita già la sede dell’Ecomuseo col suo colonnato su due piani in pietra da cantoni (ritessuta grazie alla riapertura delle cave Angelino alla Colma). E’ l’antico Palazzo Volta poi ceduto alla parrocchia. All’ingresso un cannone antigrandine Bazzi. Scendiamo nell’infernot, è il più grande del paese, ce ne vorranno di bottiglie per arredarlo... Saliamo al primo piano dal loggiato, che resterà aperto, vista sulla torre del paese. Una sala ha decori e data 1781, un’altra ritocchi firmati dal pittore Venesio di Ottiglio. Curiosa una finestrella da cui si poteva spiare nella adiacente chiesa. Usciamo, breve sosta alla panetteria Brambilla, assaggio delle ciabattine al farro e foto di soffitti dipinti (altra particolarità di questo piccolo-grande paese da valorizzare in fretta). Poi a piedi in discesa (ma il ritorno è salita...) alla Casaccia, all’inizio del paese, ci riceve la giovane Margherita Rava, scendiamo nella cantina e poi nell’infernot con tavolo scolpito, la luce la offre un candeliere marchionale. In sala da pranzo un bel soffitto, con vedute e animali (non fotografiamo il gatto nero). Incontriamo lungo la strada quattro turisti di Milano attirati dalla notizia Unesco. Noi saliamo (in auto) fino alla chiesetta di San Bartolomeo per visitare l’infernot con accesso curvo di Elsa Zai Bellero (vini Ca’ Nova), preceduto in cantina da un torchio cui sono appese mulette (salumi tipici non belle ragazze triestine) in stagionatura. Al ritorno incontriamo turisti giunti da Trieste. Si aggregano due ricercatori trevisani di Fabbrica che realizzano un servizio foto per Benetton, insieme andiamo alla vecchia casaforte Arditi. Ci accoglie Maria Grazia. All’ingresso immagini risorgimentali (Garibaldi, Kossuth...) poi splendidi soffitti affrescati; su un camino al primo piano una stampa di Cella Monte di una vecchia conoscenza (Laura Rossi). Ultimo (per noi) infernot (col sindaco Carla Freddi) a Casa Piero Mazza (due i cani da guardia, uno, piccolo, scappa subito). È bellissimo: profondo (scala a tre rampe) e preciso, levigato, datato 1886, scavato in tre inverni, le bottiglie sono su gradinate, il tavolo è ovale, scolpito. Da Oscar degli infernot. Attendiamo depliant con orari apertura, di tutti.