"Mois cmé n’abarì", che significa matto come un barile - Mat e foll
.di Olimpio Musso-
Proseguo nella lettura di quella miniera linguistica che sono i “Proverbi Monferrini” di Agostino Della Sala Spada (1901) e mi imbatto a p. 222 nel seguente, strano proverbio: "mois cmé n’abarì", che significa "matto come un barile".
Il commento etimologico del raccoglitore è che il Poggi (Gaetano) fa derivare "mois" dal greco "moisos".
A parte il fatto che in greco la parola non esiste (pazzo infatti si dice 'moròs' tanto in greco antico che in neogreco) e c’è quindi da chiedersi da dove l’erudito ligure l’abbia presa, mi risulta incomprensibile come un barile possa essere pazzo.
Siccome l’espressione del Della Sala Spada è scomparsa dall’uso, vuol forse dire che i barili sono rinsaviti?
Esiste, è vero, a Penango un proverbio simile, cioè 'mois cmè na cavagna' (comunicazione di Alessandro Allemano), che risulta altrettanto incomprensibile. Rinsaviti i barili, sono impazziti i cesti? Restano folli dal canto loro in Valcerrina le pagnotte e le scarpe:Teresio Malpassuto infatti mi comunica che a Murisengo si usano le espressioni 'fol cme na mica' e 'fol cme na scarpa'.
Questi modi di dire attendono una giustificazione (invito il lettore a cercare una spiegazione convincente e poi a comunicarmela). Ma 'mois' dove si usa e che cosa significa esattamente?
Ho consultato monferrini di varie zone, i quali mi hanno fornito un panorama soddisfacente della diffusione del termine, che appare però in via d’estinzione.
Ora, mia sorella si ricorda che sua suocera, Primina Provera di S. Maurizio di Conzano, usava la frase rivolgendosi a suo marito: “A té mois?”.
Mia cognata Giuse Pugno di San Giorgio assicura che al suo paese si dice: “Lé ’n poc mois”.
Aldo Timossi di Morano Po mi comunica: “Quanto a "mois" confesso di non averlo mai udito, mentre ad indicare persona folle, ho sempre sentito e usato "mat" e "mata" (che peraltro indicano nel piemontese anche il ragazzino e la ragazzina), talora "matoidu" in senso più canzonatorio.
La mia mamma (classe 1925) conferma però che qualche anziano usa ancora "mois" e "moisa", come nell'interrogativo "te 'n poc mois"?
Da un’indagine accurata di Carlo Aletto, al quale devo anche alcune preziose indicazioni bibliografiche, il termine viene usato a : “Balzola, Morano, San Salvatore, Pontestura (poco usato), Rocchetta Tanaro; a Cereseto è poco usato al maschile, molto più usato al femminile (moisa: notizia confermata da un cinquantenne e da una ottantenne); la stessa cosa a Frassinello (notizia di Mario Cravino). Anche a Casale è ben usato il femminile.
Teresio Malpassuto mi assicura che il termine non è usato in Valcerrina,mentre “nella zona di Villamiroglio, Vallegiolitti, Odalengo Grande e nell'alessandrino è di uso ancora abbastanza comune.”
A Sassello era testimoniata la forma moíźo alla fine dell’Ottocento (A.G.I. II, p. 399). La prof.ssa Annalaura Burlando, mi comunica: “Mio padre mi dice che in dialetto genovese moizo è l’onda travolgente del mare.”
Evidentemente si tratta di un’onda anomala, distruttiva, pazza. Il termine mois è attestato nella letteratura a partire dall’inizio del Cinquecento: si trova infatti, nelle forme moicz e moizon nel teatro dell’Alione (Asti ca.1460/70-Asti 1529).
Era sentito come termine popolare, come attesta Stefano Guazzo (La civil conversazione,II): “voi avete cancellate con la tinta del perpetuo oblio il moizo, la feia, la sgroglia e l’altre voci in tutto viziose, le quali sono proprie non che de’ contadini di questo paese, ma anco d’alcuni nostri cittadini, e in lor vece usate matto, pecora e guscio.” Vediamo ora l’origine del vocabolo. Dopo aver passato in rassegna le varie possibilità, un termine gotico ha richiamato la mia attenzione: si tratta di moths, che significa “collera,ira,furia” (Lehmann, A Gothic Etymological Dictionary, p.259). La pronuncia della spirante dentale th è la stessa della lettera greca theta e dell’inglese thank, think. Mois sembra dunque collegato a furia,collera,ira (furia metaforicamente può significare pazzo). Si ricostruisce facilmente il termine gotico moiths (ricostruito è pure moths), che vorrebbe dire pazzo furioso (vedi illustrazione). Mat e fol sono sinonimi, ma esprimono concetti un po’ diversi.
MAT E FOL IN MONFERRATO
In un precedente articolo sul termine "mois", partendo da ""Mois cmé n’abarì" (matto con un barì, barile, come da citazione di Agostio Della Sala Spada) di cui avevo individuato l’origine nel gotico "moiths" (pazzo furioso, pazzo da legare , annunciavo che avrei trattato di altri due vocaboli: "mat" e "fol".
Il primo dei due è senz’altro il più diffuso in Monferrato e si usa spesso anche là dove per indicare il pazzo si usano mois e fol. Il Della Sala Spada registra il proverbio
“Mat cmè ’n cavà” (Proverbi monferrini, 1901, p.222).
A Casale si adopera invece “mat cmè na cavala” (anche in Valcerrina,mi informa Teresio Malpassuto, si preferisce il femminile). Il termine deriva dal latino volgare matus, che significa “ubriaco”. Petronio nel I° secolo d. Cr. scrive (Satiricon 41,12): plane matus sum. Vinus mihi in cerebrum abiit (“sono completamente sbronzo.Il vinaccio mi ha dato alla testa”).
Il termine latino, sulla cui origine gli studiosi discutono, deve derivare da una lingua del sostrato paleoeuropeo. Infatti nel basco comune c’è la parola mats ( mahas nei dialetti baschi francesi), che vuol dire uva ( da mahats, forma attestata nel 1050). Mat dunque indica in origine un ubriaco, che compie delle mattane.
A tè mat? equivale quindi ad a tè ciùc? Un proverbio toscano, registrato dal Giusti nell’Ottocento, suona : “ Riguardati dai matti, dai briachi, dagl’ipocriti e dai minchioni”. Il vino fa commettere azioni che da sobri non si commetterebbero. Lo si sapeva sin dai tempi di re Salomone, che stigmatizza nei suoi proverbi la funesta azione del vino: Luxuriosa res vinum et tumultuosa ebrietas (XX,1); cfr. XXIII,32 (il vino morde come serpente, e sparge veleno come un basilisco). “Il vino non ha timone” è un proverbio citato dal Guazzo nella “Civil conversazione” (p.146 b ed.1579).
Fol è attestato dal dodicesimo secolo: precisamente nel mosaico di Vercelli, raffigurante un duello tra re Artù con la barba lunga, che dà del fol al suo avversario, il grande Orgoglioso, che a sua volta dà del fel(lone) al re (scriverò un articolo sull’identificazione dell’episodio): (v. ultima illustrazione).
Qual è l’etimologia di fol? Il termine deriva dal latino follis , usato in Giovenale (VI,373.b) nel I sec. d.Cr. col senso di “coglione” (D.E.I.,III,p.1679), cioè, si potrebbe dire anche, minchione.
Dobbiamo concludere che se mois vuol dire “pazzo furioso”,mat significa “pazzo temporaneo sotto l’influsso del vino” e fol semplicemente “coglione”. Italo Calvino ( Il barone rampante, XXIV ) distingue con acutezza la pazzia furiosa dalla follia/minchioneria: “la pazzia è una forza della natura, nel male o nel bene, mentre la minchioneria è una debolezza della natura, senza contropartita.” Il pazzo (mois) e il folle (fol) restano tali; il mat, quando gli passa la sbronza, rinsavisce.
Olimpio Musso