Ilva come Eternit: i rischi per la salute e la necessità di avere un lavoro
di Gianni Turino
Il caso dell’ILVA di Taranto ripropone, anche nella sua genesi storica, le vicende dell’Eternit a Casale. Da almeno la metà degli anni ‘60 chi doveva sapere, sapeva che le fibre di amianto non generavano solo asbestosi ma anche, con un latenza “venticinquennale” (diceva, allora, il professor Moncalvo luminare nel campo; ora si parla di quarantennale) il micidiale accidenti ai polmoni fatale al 100%. «Perché, se lo si sapeva - mi chiese il presidente del Tribunale di Torino, Casalbore in occasione della mia testimonianza nel processo Eternit - la
gente vi andava ugualmente a lavorare? ». «Perché - risposi citando il presidente statunitense Roosevelt (ma anche mio nonno Centin che aveva “fatto” solo la seconda elementare andando a scuola quando pioveva) - quando l’uomo è oppresso dal bisogno, non è libero…». Era pressoché impossibile, ad ogni livello, intervenire contro l’Eternit. Il rischio del disimpegno di quella fabbrica, mandava in fibrillazione le famiglie e l’economia cittadina che, oltre ad alcune migliaia di dipendenti, aveva anche un forte indotto che vi si riferiva.
Ricordo un dibattito organizzato dalle ACLI, di cui ero presidente diocesano e provinciale... all’intervento di un
sacerdote operaio, rispose con forte emozione una signora: «Caro reverendo - disse - lei parla come un libro stampato, anzi meglio perchè nei libri stampati ogni tanto c’è un errore di stampa… Ma lei dice queste cose perché lei dall’Eternit se ne può andare quando vuole; ma noi no, noi vi siamo legati… perché con questo stipendio possiamo migliorare la nostra vita, far studiare i nostri figli, avere case più decorose senza il cesso in fondo al cortile… Lei parla bene perché non ha questi problemi e può decidere di andare a suonare altre campane quando e come vuole…». La signora, con il suo veemente intervento sottolineava un aspetto fondamentale: quella del
sacerdote era un’esperienza (quindi sempre libera), la sua, una condizione, immutabile (salvo vincite al totocalcio). Allora a Casale anche il parroco di Oltreponte, don Poletto, viveva, part-time, la sua esperienza in una fabbrica del quartiere. Quando questa fabbrica chiuse, fu un dramma per i dipendenti, che dovettero arrabattarsi – per tirare avanti - con qualche lavoro ad ora, ma non precluse nulla a don Poletto che divenne, meritatamente, cardinale di Torino. Se a quei tempi chi di dovere, avendone il potere, avesse bloccato l’Eternit, avremmo visto insorgere tutta la cittadinanza… come sta succedendo oggi a Taranto (dove gli operai dicono: «Se ci tolgono il lavoro, non viviamo... senza lavoro, moriamo…ma solo ora se ne accorgono e prima dove erano?»). La vicenda dell’Eternit, dell’ILVA e delle altre migliaia di aziende sulle quali si è costruito il boom economico, può essere assunta come la metafora di un secolo che ha creduto (o finto di credere?) di rompere l’immobilismo e la miseria del passato percorrendo solo le scorciatoie della crescita economica; nell’illusione (o nella finzione?) che questa bastasse per un’autentica promozione umana e sociale. I processi del riscatto sociale sono invece lunghi perché hanno il passo ed i tempi della storia. Ma la vita dell’uomo è breve ed è irripetibile.
È pressoché impossibile conciliare i tempi della storia con quelli dell’esistenza individuale che vorremmo sempre, con le sue ansie e le sue attese, libera e felice. Anche a costo della vita.