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Zoofavola Protagonista è un vivacissimo uccello diurno perseguitato nei secoli da un duplice pregiudizio

Quand che la pupù ‘nu pö pü

L’Esopo Monferrino Zoofavole dialettali, raccolte e scongelate, tradotte e commentate a cura di Pietro Giordano Odalengi (4)

 

Mi pens ai me afé e m’pias nen rüsi.

Ma, quand chi disu che mi mang l’büsi,am s’rissa l’ pìümi,

m’s’andrissa la crestae m’va ‘l sangh ant la testa.

D’acordi: s-ciar ‘na büsa ‘n mes dla stra(ch’la sia d’asu, d’bö, d’vaca o d’cavà)

e seche sa i'è ‘na boia, 'n verm o quaich muscon,che da mangià i sun bon.

Mi sun insetticida e vermicida:dop passà mi, la merda l’è pulida.

Infatti, dopo ai ven ‘na madamine lla fa sü par angrassà ‘l giardin.

Poeti e cuntadìn, che brüta rassa!

Tüt lon chi sentu dì tlu campu ‘n piassa.

Pö i pensu pü, ma la frità l’è faciae a mi m’arman la macia!I disu (mi sö nent cun che criteri)

che mi i’ho ‘l dumiciliu al simiteri.

Ma s’pör i’essi pi luch?

M’han piami par ‘na suetta o par in c(i)luch!

 

La traduzione

Io mi faccio gli affari miei e non amo litigare. Però, quando mi sento dire che io mangerei lo sterco degli animali da tiro e da soma, mi si arricciano le piume, mi si drizza il ciuffo e mi sale il sangue alla testa.D’accordo: quando vedo un escremento in mezzo alla strada lo frugo alla ricerca di un verme, un insetto o anche di qualche moscone. Per me sono degli ottimi bocconi.Io mi vanto di essere insettivora e vermivora.Una volta che sono passata io e l’ho frugata per bene, anche una merda è pulita. C’è infatti una signora che viene a raccoglierla per concimare il suo giardino.Brutta razza è quella dei poeti e dei contadini: quando sanno qualcosa per sentito dire, subi-to la vanno a spiattellare in piazza. Poi magari non ci pensano più. Ma intanto la frittata è fatta e a me rimane il marchio d’infamia. Di-cono addirittura, ma senza alcuna prova, che io abiterei nei cimiteri abbandonati. Ma si può essere più idioti! Mi hanno forse presa per una civetta o un gufo?

 

Il commento

L’autore dimostra di conoscere perfettamente il duplice pregiudizio che perseguitò questo vivacissimo uccello diurno. Gli abitanti delle campagne credevano che si nutrisse di escrementi, perché lo vedevano frugare nello sterco lasciato sulle strade dai numerosi animali da tiro e da soma. In realtà vi cercava larve e insetti vari.Quanto ai poeti, per alcuni dei quali è più im-portante l’orecchio che non il cervello, dovet-tero essere suggestionati dalla doppia U del suo nome, che suona quasi come un ululato notturno. Giuseppe Parini, nel verso n. 14 della sua “Not-te”, assieme ai consueti terrori delle tenebre, ci mise “Upupe e gufi e mostri avversi al sole”.L’immagine viene poi enfatizzata da Ugo Fo-scolo che, nei “Sepolcri” (vv. 80-85), sente “dal teschio, ove fuggìa la luna, l’upupa svolazzar su per le croci, e l’immonda (...) con luttuoso singulto (...)”. Poi, non ancora contento, nell’in-no terso delle “Grazie”, al verso 35: “Guarda nell’ombra l’upupa (...)”.A questo punto un famoso ornitologo gliene disse quattro. Ma i poeti d’allora non leggevano libri d’orni-tologia e continuarono a calunniare: Arrigo Boito, in “Re orso”, e Gabriele dìAnnunzio nelle “Faville del maglio”.Venne infine Eugenio Montale a riabilitare il grazioso uccello che lui chiamava “aligero folletto”.Infatti, in una breve ma intensa lirica dei suoi “Ossi di seppia”, leggiamo “upupa, ilare uccello calunniato  dai poeti (...). Ben detto


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