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Zoofavole La morale: i difetti fisici ci colpiscono meno man mano che crescono la consuetudine e la familiarità

La ran-a e ‘l babi (la rana e il rospo)

L’Esopo Monferrino Zoofavole dialettali, raccolte e scongelate, tradotte e commentate a cura di Piero Giordano Odalengi (3)

 

La prima vira ch’a l’ha vist ‘n babi,la ran-a l’ha sclamà: “Mama, che schivi!

L’andrà finì che s’ciot l’adventa ‘n stabi.E a mi, ‘nt in stabi, m’va nen propi d’vivi.

Che rrobba: pi mi t’vard pi t’man fai scör.

T’è brüt, tant che pi brüt as mör!”.

La scunda vota: “Vist an fund al pus,fin-a i to ögg m’asmiu menu rus.

T’è sempar brüt, ma sa t’arman-i ‘n fond,s’po nanca dì ch’a t’è ‘l pi brüt dal mond”.

La tersa: “Sa t’aveissi menu pansa,tra nui a i’è ‘na certa fratelansa”.

 

La traduzione - La prima volta che vide un rospo, la rana esclamò: “Mamma, che schi-fo! Qui andrà a finire che questa pozzanghera diventerà una porcilaia, nella quale non ce la farò a vivere. Che roba! Più ti guardo e più mi fai ribrezzo, perché sei brutto che più brutto di così si muore”.La seconda volta: “Vedendoti posato sul fondo della pozzanghera, i tuoi occhi mi sembrano meno rossi del solito. Sei sempre brutto ma, se ti accontenti di startene adagiato laggiù, non si può nemmeno dire che tu sia la cosa più brutta del mondo”.E la terza volta: “Se tu perdessi un po’ di pancia, quasi quasi potremmo dirci fratello e sorella”.

 

Il commento - La morale, esplicita e condivisa, non ha pretese educative, ma si limita a una constatazione ovvia: la consuetudine, l’assue-fazione, la frequentazione e la familiarità sono fattori che ci aiutano a non vedere più quegli eventuali difetti fisici nel nostro prossimo che ci avevano invece sfavorevolmente colpiti al primo incontro.Sia pure con altri protagonisti, un anteceden-te classico si ha nella favola n. XVIII (pag. 71) dell’opera di Gabriele Faerno, già citato nell’introduzione (vedi Monf. 15 dicembre). Il curato-re di quell’opera ci informa, con ricchezza di dottrina, sulle varie edizioni e fonti della favola stessa. Protagonista è una volpe che, vedendo per la prima volta un leone, prova orrore e ter-rore alla vista di tanto mostro. La seconda volta rimane ancora impaurita ma meno. La terza comincia a prendere un po’ di confidenza.Potrei chiudere qui, ma mi rimane la sensa-zione che l’ignoto autore monferrino volesse spingersi oltre, verso una seconda morale, che inducesse magari i campagnoli della nostra terra a evitare certe ottuse crudeltà verso il rospo, che furono una vergognosa caratteri-stica locale.Tacendo di altre torture meno cruente, lo si infilava con una canna di cui si piantava l’altra estremità nel terreno. Nella sua lunga e atro-ce agonia l’animaletto agitava freneticamente le zampette, allargando e chiudendo le dita. E qualcuno osservava: “Guarda come gioca bene alla morra!”Ma che facevan o dicevano quelli che avrebbero potuto educare quella massa abbrutita? Niente facevano. Gli intellettuali erano affaccendati altrove e i religiosi avevano esclusivi interessi antropocentrici. Comunque la sofferenza di un rospo non commuoveva nessuno.Pensava forse il nostro autore a Voltaire, a Victor Hugo e anche a Luis Ratisbonne? Forse sì. Forse sì perché quei grandi seppero anche insegnare al popolo la pietà per la sofferenza di un rospo. Anzi, mettendoci tutto il peso della loro auto-revolezza estetica, filosofica morale


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