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Il “brutto segreto” di Levi: la morte del partigiano Fulvio

Ma chi era Fulvio Oppezzo? A Cerrina, il suo paese, a parte il ricordo contenuto di qualche anziano, neppure leggendo la targa delle scuole e della piazza del capoluogo, che riportano entrambe il suo cognome (scritto con una “p” in meno), viene in mente di domandarsi chi fosse? Del resto lo stesso vale per altri cerrinesi meritevoli di intitolazioni, come l’avvocato cav. Cesare Bollo (sindaco dal 1951 al 1953), alla cui memoria è intitolata la piazza mercatale in frazione Valle e il dottor Enrico Felice (sindaco dal 1917 al 1920), a cui è invece intitolata la stretta via dietro al palazzo municipale. Più facile è per Domenica Pozzi Bollo, benefattrice a cui si deve l’oggi rinomato pensionato di Cerrina e, al momento, solo perché fresco di intitolazione, il parco di Valle dedicato alla memoria della suora domenicana Cav. madre Enrica Gasperini. Ma torniamo al cerrinese Oppezzo, nipote del podestà di Cerrina Marcello (nel 1935). Era l’anno 1950 quando Cerrina gli dedicò la piazza del capoluogo e l’edificio scolastico. Una delibera (ad oggi introvabile, ma la cui esistenza è documentata in un volume del compianto don Ferrando) venne assunta dal consiglio comunale sette anni dopo la sua dipartita (avvenuta il 9 dicembre 1943 all’età di 18 anni), senza però annoverare l’indicazione di un’adeguata motivazione. Al dolore della madre, Idalia Tos Oppezzo, anelante un gesto di tangibile memoria a rivendicar onore e gloria per il suo ragazzo, passato come “martire della Resistenza”, fece così risposta la comunità cerrinese con le due intitolazioni. Ma la sua morte, da subito, si avvolse nel mistero. Qualcuno che sapeva però scrisse, sebbene in forma sibillina, ma scrisse. Lo fece il chimico torinese Primo Levi (antifascista, deportato, tra i più grandi testimoni della Resistenza e scrittori del Novecento) nel suo libro “Sistema periodico”, Levi per un breve periodo, fu con Fulvio, partigiano nascosto nelle baite sul Col de Joux, tra la Valtournanche e la Val d’Ayas. La verità, per quanto dolorosa o sovversiva la credenza popolare che sia, non dovrebbe mai restare nascosta. Ci sono voluti ben 70 anni per dichiararla nero su bianco, con documentazioni a corredo (carte processuali, atti delle Corti d’Assise e verbali degli interrogatori), pagine che filtrano storia e dolore. Ne parla il saggista Sergio Luzzatto nella sua ultima pubblicazione edita da Mondadori, dal titolo “Partigia” uscita nei giorni scorsi nelle librerie italiane e che è già un caso editoriale. “Una storia della Resistenza” di uno storico e docente di storia moderna presso l’Università di Torino, autore di numerosi libri sul Novecento italiano, (tradotti in inglese, francese, tedesco e giapponese): non un revisionista, ma uno studioso desideroso di “approfondire conoscenze”, anche a rischio di ripercorre un terreno ancora minato, pronto ad esplodere, e così è già stato su alcuni quotidiani, dove trovano spazio editoriali dalle firme autorevoli. Il libro di Luzzato ricostruisce storie partigiane tra Casale Monferrato e la Val d’Ayas che rispolverano ed interpretano il “segreto brutto” di Primo Levi, fanno luce sulla morte del giovane tenente cerrinese (e tra gli altri sulle gesta dei fratelli Rossi di Casale) con accenni alle memorie di Gianpaolo Pansa bambino, sull’eccidio della banda Tom e molte altre vicissitudini che caratterizzarono gli anni partigiani sino alla Libertà. Una storia nella storia ricercata dalla necessità di approfondire conoscenze, una storia vista da vicino con “l’urgenza delle storie personali prima ancora che il senso delle storie collettive”. Furio, pseudonimo partigiano di Fulvio, non cadde dunque per la Libertà nel senso stretto della parola e comune del suo significato. Venne ucciso (mitragliato alle spalle senza avviso) da altri partigiani, compagni di rifugio sul Col de Joux, la mattina del 9 dicembre del 1943 (tre giorni prima del rastrellamento nazifascista). Perché? Non perché fosse stato un traditore, così come mormorò più tardi qualche cerrinese, ma perché avrebbe potuto esserlo da lì a breve. Dai pochi documenti e testimonianze ritrovate, pare che Fulvio, insieme al giovane Luciano Zabaldano (pari e congiunta esecuzione), avesse “tradito”, da sotto la divisa e con le armi in mano, la sua effettiva, fragile ed impulsiva giovane età, agendo e pronunciando frasi, che avrebbero preoccupato i compagni partigiani, ovvero minacciato la loro sopravvivenza. La giovane età della maggior parte dei ribelli, quasi tutti renitenti alla leva delle classi 1924-25, fu già di per se molto significativa: si parla infatti non soltanto di “ragazzi anagraficamente acerbi, ma di giovani per i quali il passaggio dalla vita civile a quella partigiana non comprese fasi intermedie: nessuna preparazione militare. Ragazzi armati da un giorno all’altro senza sergenti né capitani a cui dover obbedire, nella condizione ubriacante di non avere né tetto né legge”. Veloce la “sentenza” pronunciata dai partigiani sul Col de Joux, 10 in tutto, nascosti nelle baite di Frumy e Amay: “sopprimerli”, era risultata l’unica soluzione. “La necessità di cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza a sopprimere uomini entro le loro stesse fila per ragioni diverse e variamente gravi” scrive Luzzatto “ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia”. Ma perché quell’esecuzione fu una necessità? Le bande “non disponevano di infrastrutture istituzionali e materiali tali da permettere che la punizione di soggetti considerati colpevoli si risolvesse in una pena detentiva anziché in una pena capitale”. E quello divenne il “brutto segreto” di Primo Levi e degli altri: “fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto…. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente” (da: Il Sistema Periodico di Primo Levi). Un Primo Levi non esecutore, ma che condivise la condanna a morte dei due gregari partecipando al loro seppellimento? Tesi che Luzzatto avvalora richiamando alcuni pensieri dello stesso Levi tratti da “Se questo è un uomo” e da “Sistema periodico” oltre che dalla documentazione storica consultata tratta dagli archivi pubblici e privati (17 in tutto). Una tesi scritta non con lo scopo di formulare nuovi capi di accusa, revisionando la storia, ma per fornire ulteriori riflessioni e non si dimentichi che “la storia non è letteratura”. Furio-Fulvio ha pagato con la vita una vicenda originatasi nelle dinamiche che hanno portato, tra le altre, al raggiungimento della libertà stessa. Chissà se mai qualcuno penserà di rifare le targhe a lui dedicate, con la seguente dicitura “ten. Fulvio Oppezzo 1925-1943 uomo simbolo della crudeltà della guerra”?

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Enea Morotti

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