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“Io, malato d’amianto in cerca di speranza”, il “dilemma” del recettore che pare non serva

Non vuole rivelare il proprio nome ma ci tiene a portare una testimonianza della sua esperienza difficilissima e allo stesso tempo drammaticamente comune: quella di casalese colpito dal “mal d’amianto”. A.Z. (lo chiameremo così, con la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto) ha 50 anni, e chiede esplicitamente l’anonimato perché - paradossalmente - teme che a fronte del racconto della sua esperienza possano «chiudersi delle porte e venire meno disponibilità da parte di alcuni medici» di cui invece ha bisogno più che mai per essere curato. La sua “colpa”? È di chiedere - dice - di essere curato con una terapia che porta la firma del GIME, il Gruppo Italiano mesotelioma di cui è presidente il medico e ricercatore Luciano Mutti. Peraltro non è che Mutti sia proprio uno improvvisato: in Inghilterra (in virtù dei meriti scientifici e a seguito di un concorso pubblico) gli hanno assegnato la Cattedra Universitaria di Oncologia e Ricerca sul Cancro alla Salford University di Mancester dove comincerà la sua attivita clinica, di ricerca ed insegnamento a ottobre. E tanti pazienti si rivolgono a lui da tutta Italia e dall’estero (è conosciuto come relatore in seminari e convegni in tutto il mondo e autore di molte pubblicazioni su questa patologia) per avere indicazioni su terapie standard e sperimentali. Nei giorni scorsi è stato chiamato a confrontarsi con l’assessore regionale alla Sanità Lucia Borsellino (figlia del magistrato ucciso dalla mafia) ad Augusta (Siracusa) perché la legge regionale siciliana sul piano amianto ha destinato questo ospedale ad una riqualificazione quale presidio per lo screening e la terapia delle malattie da amianto in un’area con alta incidenza di tumori legati alla fibra killer. Gleevec e gemcitabina A.Z. è “disorientato” dalla malattia ma anche da una situazione di disagio e timore legata al fatto che - dopo avere tentato tutte le strade disponibili con le terapie ufficiali e sperimentali senza averne tratto giovamento, non riesce ad accedere a una terapia che - comunque - qualche risultato lo ha prodotto e che costituisce per lui una importante speranza. «Ho capito come funziona veramente - purtroppo - quando mi sono ammalato anche se avevo conosciuto tante altre persone con le quali ho parlato di questa situazione». A.Z. - racconta - ha fatto la chemioterapia tradizionale «poi mi è stata proposta una cura sperimentale, qui a Casale, l’NGR», che sarebbe il protocollo della Molmed, società farmaceutica di Berlusconi, ma senza giovamento. «Non sapevo neppure se mi davano il farmaco oppure il placebo... E questo è pazzesco perché se mi curano ok... ma se mi danno il placebo è una pura perdita di tempo!». La lotteria della fialetta Una situazione che è effettivamente incredibile trattandosi di una patologia infausta, per cui mancano cure efficaci. Se si dovesse testare un farmaco per il raffreddore o per una tendinite si potrebbe anche capire, ma sul mesotelioma, malattia con una varietà straordinaria di tipologie e per la quale si procede praticamente a tentoni e non si sa mai se e a quale terapia c’è una risposta, la cosa appare come minimo cinica. Anche perché la malattia progredisce rapidamente e il tempo per cercare di imbroccare la cura giusta è poco. Ma tant’è gli “esperti” dicono che tutti i trial ormai sono “disegnati” così... Andate a raccontarlo a chi è malato e si aspetta di esser curato davvero e non di iscriversi alla “lotteria” e vedere se vince la fialetta giusta! «Alla fine della cura ho scoperto che - facendo richiesta - potevo sapere se ero stato curato o no con il farmaco e in effetti a me avevano somministrato la cura, ma non mi ha giovato. Però è un meccanismo che va rivisto perché tutti hanno diritto di essere curati davvero...». Dopo questo tentativo A.Z. ha aderito alla terapia con la Trabectedina ad Alessandria. Ma anche in questo caso non c’è stato il risultato sperato. «Per fortuna ho incontrato poi Lillo Mendola della AFEVA di Bari». Mendola si è avvicinato alla problematica quando sua moglie anni fa si ammalò di mesotelioma e tentò con giovamento proprio la sperimentazione con Gleevec e Gemcitabina. Bari, in passato sede della Fibronit, è un’altra realtà vittima della speculazione dell’amianto. Lì c’era addirittura una intera spiaggia fatta di scarti e di polverino, che è rimasta accessibile ai bagnanti - del tutto ignari - per anni. Il cinismo di chi ha usato la fibra killer evidentemente è stato (e in molti Paesi è ancora) totale e senza riserve. Ovunque! Oggi - attraverso la sua associazione, l’Afeva Bari, che ha fatto del sostegno alla ricerca di nuove cure la propria mission - Mendola è uno dei punti di riferimento per chi cerca di capirci qualcosa, quando si trova drammaticamente a fronteggiare una malattia così spietata. Ed è stato proprio Mendola - che monitora costantemente le sperimentazioni attive in Italia (e non solo) - a indirizzare A.Z. sulla terapia con il Gleevec. Il trial all’Humanitas «Così ho fatto una consulenza (a pagamento!, ndr) all’Humanitas per accedere al protocollo Gime che a breve dovrebbe partire proprio con il Gleveec e la Gemcitabina» (sull’argomento avevamo pubblicato a marzo un servizio su queste stesse colonne). «Io sono malato, le beghe fra medici non mi interessano, l’importante è avere risposte chiare e avere fiducia in chi mi cura. E anche incoraggiamento...», aggiunge mestamente A.Z. «Ma quando si comincia a nominare il dottor Mutti c’è ostilità... Invece questa terapia dovrebbe entrare come tutte le altre nei protocolli di tutti gli ospedali. Tra l’altro il farmaco utilizzato nel trial era già impiegato nella terapia prima di quelli con il platino attualmente in uso e quindi è già approvato... «E non dimentichiamo che il mesotelioma farà una bella strage nei prossimi anni. Ma c’è un interessamento... blando, rassegnato... Come dire: “Ce l’hai... mi spiace ma ti devi arrangiare”. Ma solo Dio può decidere tu vivi o tu muori, non sono loro, sennò siam peggio del terzo mondo. «E secondo me la professione medica deve essere improntata principalmente sul rapporto con il paziente e le cure e lasciar perdere la burocrazia». La “burocrazia” sono le difficoltà per accedere al trial dell’Humanitas finanziato dalla Fondazione Buzzi e che dovrebbe far chiarezza sulla validità del cocktail Gemcitabina e Gleevec che su alcuni/molti (non si sa esattamente) pazienti in progressione di malattia dopo la chemio tradizionale ha dato buoni risultati. Qualche volta straordinari! Mentre in altri - come tutte le terapie, purtroppo - ha funzionato meno, oppure per nulla. Quanti si e quanti no? Non si sa... a causa delle modalità con cui è stato realizzato il trial. Una sperimentazione anni fa era infatti naufragata perché erano stati arruolati pazienti in condizioni ormai di malattia troppo avanzata. Erano anche stati somministrati farmaci che annullavano la terapia o sospesi i trattamenti - pare - in modo arbitrario... E così la validità della terapia attende ancora di essere accertata. «Comunque per una paziente il protocollo del Gime è aperto ad Alessandria e lei ne ricava da molti anni un grande beneficio», sottolinea A.Z. «Nel suo caso il farmaco è dovuto, perché siccome funziona non le può esser negata la terapia». Anche un caso di guarigione Altri casi positivi sono noti, alcuni illustrati sempre su queste colonne: un paziente lombardo sopravvissuto per sette anni, un altro di Brescia a cui il tumore era completamente scomparso alcuni anni fa e del quale non si è mai più saputo nulla. Per A.Z. però ci sono difficoltà ad accedere perché la sperimentazione prevede la presenza di un recettore che - però - secondo lo stesso Mutti, autore del protocollo, «non solo non serve ma è un marcatore di resistenza alla terapia. Infatti successivamente il protocollo è stato modificato, eliminando la necessità del recettore... I dati sono anche stati pubblicati! «Il problema è che il vecchio protocollo adottato dall’Humanitas rischia di impedire qualunque valutazione seria sulla efficacia della terapia, visto che si selezionano in modo errato i pazienti». L’AFEVA di Bari ha anche scritto all’Humanitas: «Parecchie persone - dice Mendola - mi hanno chiamato dal Casalese dicendo che non li accettano nel trial. Eppure abbiamo scoperto - proprio su mia moglie - che il recettore era ininfluente ai fini della risposta. Insomma una situazione inquietante che però - intanto - impedisce ad A.Z. di tentare davvero tutte le strade possibili per curarsi. Cosa che sfida l’umana comprensione ma anche il semplice rispetto della vita umana. Che fare allora? «La soluzione c’è - dice Lillo Mendola - ed è di somministrare la cura in “caritatevole”. Peraltro si tratta di farmaci entrambi utilizzati proprio per la cura di altre patologie tumorali e quindi ampiamente testati. La Gemcitabina era usata prima dell’Alimta e pare abbia stessa percentuale di risposta con costi oltretutto dieci volte inferiori. E il Gleevec viene utilizzato per altre patologie, sempre tumorali... «Dovrebbe essere il comitato etico dell’ASL o dell’ospedale a riunirsi e decidere di somministrare al paziente la terapia in “compassionevole”. Il farmaco potrebbe pagarlo la Fondazione Buzzi oppure l’AFEVA di Casale con le risorse delle transazioni e destinate alla ricerca...», dice Mendola. Peraltro l’esborso sarebbe anche abbastanza contenuto perché il brevetto del farmaco è scaduto e in India viene prodotto a costi dieci volte inferiori a quelli europei: 200 dollari contro a 1700 euro. Farmaco che è stato analizzato a Milano da un illustre biologo ed è risultato sicuro. «A Bari - aggiunge Mendola - una signora ha discusso in questa settimane con la propria oncologa proprio questa opportunità terapeutica e si sta orientando su questa strada. Se è possibile qui da noi perché non dovrebbe esserlo a Casale? Sarebbe in ogni caso un gesto di profonda umanità per ridare speranza a chi è malato e ha tentato tante strade senza trovare una risposta...».

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